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Per chi suona la campana


Nella patria dell’Eterno Paradosso poteva sfuggirgli la rivolta siciliana del 1860? Il 3 aprile le bande dei ribelli si prendono a schioppettate con le due compagnie del capitano Simonetti nel vallone della Badia, dalle parti di Boccadifalco, paesello a una manciata di chilometri da Palermo. È la scintilla, da cui principia l’incendio, che incenerirà il Regno delle Due Sicilie. Eppure Boccadifalco era nato e cresciuto grazie agli odiati Borboni. Fu Francesco, il figlio di Ferdinando IV re di Napoli, a ideare il parco, fra il 1799 e il 1815, in gara con il padre impegnato nella costruzione della riserva di caccia della Favorita. All’interno dell’area vennero sperimentate nuove tecnologie e tecniche agricole, zootecniche e botaniche. Di conseguenza si svilupparono attività di fiancheggiamento come macellerie, taverne, le stesse abitazioni dei lavoratori. Progetti e investimenti tramontarono con il ritorno dei sovrani a Napoli: il borgo si ripiegò su se stesso in attesa di essere conglobato dall’espansione di Palermo (oggi è il sedicesimo quartiere nella zona centromeridionale).

La famigliola reale si era insediata in Sicilia per evitare le irruzioni delle armate francesi con il loro vangelo rivoluzionario e per sottrarsi agli empiti repubblicani dell’elitaria minoranza partenopea. Per tre lustri Ferdinando e i suoi cari fecero avanti e indietro dalla confortevole capitale. Finché nel 1815 il vecchio ordine tornò a spirare sull’Europa e anche una monarchia testardamente abbarbicata al passato poté rientrare a casa. Ma a Palermo e dintorni Ferdinando e la sua cerchia erano stati accolti bene, nonostante trascorsi di ruggini e d’inesauribili contrapposizioni. Il patriziato, con il clero al laccio, aveva infatti difeso accanitamente i propri antichi privilegi, che venivano artificiosamente legati al Parlamento più antico, e despota, d’Europa. L’idillio era durato lo spazio di un mattino: più di Ferdinando era stata la moglie Maria Carolina a pretendere senza niente concedere. Colta ed elegante, ben educata e scaltra nell’usare la propria avvenenza, i voleri di Maria Carolina erano legge, soprattutto per il rassegnato, anche alle corna, marito. Malgrado i diciotto figli, i pantaloni in famiglia li portava lei. Ne aveva già fatto le spese il marchese Bernardo Tanucci, mente giuridica e uomo forte del Regno, impegnatissimo in una politica di vaste riforme: dalla struttura statuale alle miserrime condizioni della plebe cittadina e rurale. Tanucci avrebbe voluto aprire alla borghesia per contrapporla alla decrepita nobiltà, ma non l’aveva trovata né a Napoli né a Palermo. Alla fine era stato liquidato in una delle innumerevoli congiurette da palazzo. Se i suoi progetti avessero avuto compimento, probabilmente sarebbe stata Napoli anziché Torino ad avviare il processo unitario della Penisola.

Il destino della Sicilia aveva continuato a essere legato alle bizze e alle aspirazioni di baroni, conti, duchi, marchesi e principi. Assommavano a 2400, quasi tutti ammalati di sfarzo, di dissipazione, d’indolenza, di orgoglio mal riposto. Esercitavano ancora la signoria sui quattro quinti dei municipi, però avevano sempre meno piccioli e sempre più debiti. Di conseguenza il vertiginoso aumento dei donativi, ordinari e straordinari, alla coppia reale aveva inferto un ulteriore colpo alle loro disastrate casse. Un po’ di sollievo economico era sopraggiunto dalla massiccia presenza militare dell’Inghilterra sull’isola. Serviva a proteggerla dalle mire di Napoleone e al contempo a proteggere la vasta colonia di connazionali, che tra Marsala e Palermo avevano individuato un eldorado d’investimenti. Ed erano stati i figli della benedetta Albione a punire le sgradite intromissioni di Maria Carolina nella gestione della cosa pubblica obbligando Ferdinando a concedere la Costituzione (1812-1813). Benché ispirata ai collaudati principi del sistema britannico, aveva migliorato i benefici dei latifondisti e aggravato i disagi dei braccianti.

Le sconfitte di Napoleone e il Congresso di Vienna rinsaldarono il vacillante trono di Ferdinando, a un passo dal doverlo cedere al primogenito Francesco. Anzi, il figliolo perse pure la luogotenenza della Sicilia a vantaggio del principe di Cutò (Niccolò Filangieri). Un’accomodante commissione di giuristi permise a Ferdinando di autonominarsi nel 1816 primo «Re delle due Sicilie». Eppure proprio con i siciliani aveva un conto aperto: non li perdonava di aver appoggiato quei supponenti funzionari della corte inglese contro di lui. Aumentò, quindi, la morsa sbirresca attraverso un ministero ad hoc e una direzione generale di polizia. Fu accentuata, anche giuridicamente, la subalternità a Napoli. A contrastare Ferdinando si erse il Partito unico siciliano (Pus), che dal tempo dei Vespri raggruppa i rappresentanti delle istituzioni, dell’imprenditoria, delle arti e dei mestieri capaci di superare qualsiasi differenza ideologica nella difesa dei propri intangibili privilegi, a danno ovviamente della stragrande maggioranza. E già all’inizio dell’Ottocento massoneria e mafia funzionavano da mastice oltre che da camera di compensazione.

Il Pus adottò la vecchia tattica del calati juncu ca passa la china (piegarsi per evitare danni maggiori, finché non passa la piena), ma fomentò in ogni strato sociale un aspro risentimento antinapoletano, che si sposava con quello solidificato contro la dinastia borbonica. In tale avversione trovò spazio persino il rimpianto per le (poche) libertà costituzionali conquistate e perdute. Tali umori divennero il terreno di cultura propizio per la diffusione sotterranea della Carboneria. Era una setta clandestina sorta nel napoletano all’inizio del secolo in funzione anti Murat – maresciallo e cognato di Napoleone, che aveva invano tentato di scalzare Ferdinando – e anti francese, poi mutata in funzione anti borbonica. Su uno sfondo massonico venivano propugnate idealità monarchico-costituzionali in opposizione al dispotismo regio. Vi aderivano borghesi, militari, financo alcuni sacerdoti. In Sicilia i centri erano Palermo, Messina, Catania, Caltagirone.

A cominciare dai moti del 1820 l’isola fu un pentolone in continua ebollizione, sempre pronta a infiammarsi per un’idea di rivolta, ma assai contenta di essere esentata dalla leva obbligatoria. Furono contagiati pure i ceti più bisognosi illudendoli con la promessa della distribuzione di terre. E se all’inizio ci si dibatteva fra l’indipendenza dentro una confederazione di Stati italici a regime monarchico e l’autonomia nel quadro di uno Stato repubblicano unitario, con il trascorrere dei decenni sull’aspirazione nazionalistica prevalsero l’opposizione antiborbonica, l’insofferenza al centralismo napoletano, il diffuso malessere per le condizioni di arretratezza in cui era mantenuta l’isola. Neppure l’avvento della Giovine Italia mutò il sentire della maggioranza fra i pochissimi, che avevano tempo e modo di dedicarsi ai sogni. Una Sicilia indipendente dentro una confederazione di stati italiani appariva a molti la soluzione migliore. Non fu perciò una sorpresa che Mazzini escludesse la Sicilia dai propri piani insurrezionali.

L’ascesa al trono di Francesco I (1826) comportò speranze assai veloci nell’estinguersi. L’esecutore dei suoi intendimenti continuò a essere Luigi de’ Medici, il settantenne primo ministro di Ferdinando nonché ascoltato consigliere fin dal congresso di Vienna. Era stato lo stesso Metternich, massimo garante della restaurazione europea, a imporre il suo ultimo ritorno. La successione di Ferdinando II nel 1830 accese nuovi miraggi, spenti ben presto dalla sua rinnovata fedeltà all’Austria. Eppure la Sicilia visse anni prosperi. La luogotenenza del fratello del re, Leopoldo conte di Siracusa, e il ripristino del dicastero per gli Affari Locali spinsero l’edilizia, la viabilità, l’industria. La buona predisposizione, però, s’interruppe dinanzi alla paura di Ferdinando che l’interventismo di Leopoldo nascondesse mire dinastiche. Fu richiamato a Napoli, le sue aperture cancellate, gli appalti bloccati. L’isola venne attraversata dall’ennesima ventata anti borbonica. La situazione precipitò con l’arrivo nel 1837 dell’epidemia di colera, che l’anno precedente aveva imperversato nelle regioni continentali. La scarsa igiene, la promiscuità figlia della miseria, le carenti strutture sanitarie aggravarono parecchio l’emergenza. Alla fine, su una popolazione sotto i 2 milioni, si contarono 69 mila vittime, di cui 24 mila nella sola Palermo.

A queste si sommarono le centinaia di morti causate un po’ ovunque dall’assurda diceria che a diffondere il male fossero stati ignoti agenti del governo, spediti dallo stesso sovrano in odio ai siciliani. Dietro lo scatenamento delle folle inferocite impazzava la malsana propaganda degli oppositori. L’avversione nei confronti del Borbone spinse aristocratici e borghesi, presunti assertori di tolleranza e democrazia, allo sfruttamento più bieco dell’epidemia. Mentre medici, volontari, funzionari governativi, sacerdoti, suore si prodigavano, furono assaltati municipi, tribunali, uffici pubblici, gendarmerie, farmacie. Da Siracusa a Catania, da Corleone a Bagheria le masnade si scatenarono in saccheggi, distruzioni, violenze, omicidi. Per sfruttare politicamente la rivolta a Catania si formò perfino un governo provvisorio presieduto dal marchese di Sangiuliano. Venne cacciata la guarnigione e arruolati volontari. Riecheggiarono gli antichi slogan indipendentisti, ricomparve la bandiera giallorossa con la triscele (la creatura a tre gambe antico emblema della Sicilia), furono abbattute statue, iscrizioni, insegne, che rimandassero alla detestata monarchia. Bastò però l’arrivo di 4 mila soldati e di un energico ministro della Polizia, Del Carretto, per produrre una vampata legittimistica.

Carestie e disordini mandarono in crisi parecchi latifondisti. Strariparono l’invadenza e l’arroganza dei gabelloti, dietro i quali avanzava la mafia agreste: avevano i quattrini per comprare le terre e le protezioni per imporre la propria volontà. E infatti entrarono a vele spiegate nel Pus. Spesso c’erano loro dietro i principi, i marchesi, gli ordini religiosi acquirenti ufficiali dei beni posti in vendita. Proprio in quel periodo (1838) apparve la prima descrizione dell’attività di Cosa Nostra in un documento ufficiale. L’aveva vergata il procuratore del re a Trapani, il napoletano Pietro Calà Ulloa, nella relazione inviata al ministro di Grazia e Giustizia. Si parlava di un potere occulto e subdolo capace di affermarsi come forza prevaricatrice in alternativa ai poteri costituiti: «Vi ha in molti paesi delle unioni o fratellanze, specie di sette, che si dicono partiti, senza colore o scopo politico, senza altro legame che quello della dipendenza da un capo, che qui è un possidente, là un arciprete. Una cassa sovviene ai bisogni di far esonerare un funzionario, ora di difenderlo, ora di proteggere un imputato, ora d’incolpare un innocente. Sono tante specie di piccoli governi nel Governo».

Né l’ingresso di Londra nella proprietà di 134 miniere di zolfo – fondamentale per la fabbricazione della polvere da sparo – tra Agrigento e Caltanissetta né la nascita della compagnia di navigazione dei Florio contribuirono a ispessire la scheletrica economia siciliana. I più avvertiti fra le classi colte intesero che l’unica speranza di miglioramento sussistesse nel far da soli. Tornò preponderante l’appartenenza a una confederazione di stati italici in forma monarchica, di cui lo storico Michele Amari fu il massimo propugnatore: «Non sconosco per certo il sentimento di nazione italiana, anzi lo proclamo e maledico chiunque lo fece isterilire nel Medioevo e vi lasciò gli amari frutti che raccogliamo adesso». L’elezione pontificale di Pio IX, Giovanni Mastai Ferretti, (1846) sospinse anche nell’isola il progetto della federazione di Stati a guida papale, già annunciata dal cervellotico pamphlet del teologo torinese Vincenzo Gioberti (Del primato civile e morale degli Italiani). Le iniziali riforme di Pio IX obbligarono sulla stessa strada gli altri sovrani della Penisola con l’eccezione di Ferdinando sempre più rinchiuso in un passatismo cieco e opprimente. Il suo no fece saltare anche la lega doganale. Si levò allora la voce possente di Luigi Settembrini (Protesta del popolo delle Due Sicilie). I comitati rivoluzionari allargarono in Sicilia l’opera di proselitismo, benché fallisse l’assalto messinese agli ufficiali della guarnigione.

La ristretta opinione pubblica, i pochissimi che leggevano, si esaltò con la Lettera di Malta, dettagliata denuncia degli arbitri e dei danni del Borbone, ideata in forma anonima dall’economista Francesco Ferrara. Il luogotenente generale Luigi Di Maio sollecitò la chiusura dell’università di Palermo nel convincimento di anticipare i possibili disordini. Che, invece, proruppero dal manifesto affisso, il 9 gennaio 1848, sui muri di Palermo. Era l’iniziativa del giovane avvocato Francesco Bagnasco, slegato da qualsiasi organizzazione, tuttavia bravo nel toccare le corde giuste dei propri concittadini. L’arresto delle personalità più in vista, da Amari e Ferrara, lasciò campo libero ai radicali, fra i quali svettò Giuseppe La Masa, reduce da un lungo soggiorno fiorentino. La Masa fu il primo a sventolare in cima a un bastone un fazzoletto bianco e uno rosso legati da un nastro verde. Un abbozzo d’Italia figlio degli ambienti mazziniani e massonici collegati a La Masa, che avevano predisposto l’insurrezione. Il successo fu sancito dall’allontanamento via mare, il 26 gennaio, della consistente guarnigione borbonica.

La sommossa si diffuse in tanti centri vicini: spesso la vittoria coincideva con il saccheggio degli uffici pubblici, con l’accanita ricerca dei registri fiscali, lo strumento delle odiate tasse da fare sparire. A seguire insorsero Messina, Catania, Agrigento, Trapani e cento altri comuni. Preoccupato dei contraccolpi a Napoli, Ferdinando promise un’immediata Costituzione. Era convinto che avrebbe travolto il campo avversario più che il proprio: «Don Pio IX e Carlo Alberto hanno voluto gettarmi un bastone fra le gambe? E io getto loro questa trave. Spassiamoci ora tutti quanti». Il comitato generale la respinse e si trasformò in governo provvisorio presieduto da Ruggero Settimo. Vi fu ammesso il giovane avvocato di Ribera Francesco Crispi: da Napoli aveva tramato e predisposto per conto della Giovine Italia ed era tornato a Palermo per riaffermare gli ideali repubblicani in mezzo a sfegatati monarchici. Il 4 febbraio, con la partenza della truppa del castello palermitano, la Sicilia fu completamente libera. Aveva fatto da battistrada alla Storia in un anno che avrebbe cambiato il volto dell’Europa.

Venne rielaborata la Costituzione del 1812 attraverso due Assemblee legislative: una di nomina regia, l’altra eletta da popolo con modalità da definire. I moderati trionfarono nelle elezioni, Settimo rimase premier. Annunciarono decisioni solenni, che magari cozzavano con l’estrema precarietà della situazione: adesione della Sicilia libera e indipendente ad una federazione di Stati italiani; dichiarazione di decadenza dei Borboni; approvazione dello Statuto del Regno di Sicilia; proclamazione del secondogenito del re Carlo Alberto, Ferdinando duca di Genova, a re di Sicilia col nome di Alberto Amedeo I in odio al Ferdinando di Napoli. Ambasciatori furono spediti a diffondere le buone intenzioni dei siciliani. Purtroppo Carlo Alberto rifiutò il trono siciliano per il figlio: non voleva aprire un fronte con il re di Napoli provvisorio alleato nella guerra all’Austria. Proprio l’esito del conflitto suonò le campane a morte per le aspirazioni siciliane.

A conclusione di mesi caotici, di riforme date e annullate, di capi del governo

nominati e dismessi in pochi giorni, Ferdinando rimontò in sella con i mercenari svizzeri e con il sostegno dei lazzari, gli ultimi della scala sociale. Ritirò le truppe inviate in appoggio al Piemonte e si dedicò alla Sicilia, dove la situazione volgeva al peggio per l’insanabile dissidio fra moderati e radicali. In un’alternanza di governi uniti dall’inconcludenza trionfò l’anarchia: nessuno pagava più le tasse, bande di delinquenti scorrazzavano senza opposizione, gli uffici pubblici smisero di funzionare, i tribunali non riuscivano a esercitare alcuna funzione, evaporò l’arruolamento di un esercito di volontari. Non servì neppure la fondazione del Banco Regio dei Reali Domini al di là del Faro (nel 1860 denominato Banco di Sicilia). Era nato dall’unificazione della Cassa di Corte di Palermo e della Cassa di Corte di Messina, separatesi dal Banco delle Due Sicilie per fornire di un istituto autonomo la regione.

Dalla Cittadella di Messina s’iniziò la rivincita di Ferdinando. Da febbraio a maggio 1849 la rivolta fu domata. Lo spietato comportamento delle truppe a Palermo e a Messina valse a Ferdinando la denominazione di «Re bomba» e all’esercito odio eterno, per altro contraccambiato. Dall’amnistia furono esclusi in 43, tra i quali Settimo, La Masa, Crispi, Amari e due prossimi protagonisti dello sbarco di Garibaldi, Rosolino Pilo, quarto figlio del conte di Capaci, e Giuseppe La Farina saltabeccante tra Mazzini e Cavour, tra repubblica e monarchia. Alcuni s’imbarcarono per Malta, altri per Londra, i più per Genova. Da qui raggiunsero Torino e ingrossarono le file del movimento risorgimentale. Ferdinando si scatenò in ogni tipo di repressione. Il futuro premier inglese Gladstone, soggiornando a Napoli per quattro mesi fra il 1850 e il ’51, descrisse in alcune lettere la terribile condizione del Regno, definito «la negazione di Dio».

La Sicilia si ritrovò più povera, più sola e più ignorata che mai. Nel 1854 il «Sicilia», un piroscafo a vapore di costruzione scozzese, appartenente alla Sicula Transatlantica degli armatori Luigi e Salvatore De Pace, navigò da Palermo a New York in 26 giorni. Era la prima moderna nave italiana a giungere in America. A Napoli nessuno ci badò: il governo aveva interesse e finanziamenti soltanto per le imprese campane. Nell’isola dominava l’occhio lungo e severo della polizia: il sospetto divenne l’anticamera della verità e per estirpare anche il minimo seme di opposizione non ci si fece scrupoli. Tuttavia fucilazioni e carcere duro non spensero i tentativi di ribellione. Nel novembre 1856, convinti da Francesco Bentivegna e da Salvatore Spinuzza, insorsero Mezzojuso, Villafrati, Ventimiglia, Ciminna, Corleone, Baucina; qualche giorno più tardi li seguirono Cefalù, Collesano, Roccella. Finì male: fucilati Bentivegna e Spinuzza, graziati altri 27 condannati a morte. Con funzioni di coordinamento sorse un comitato esecutivo di Sicilia presente a Palermo, Catania, Messina, Trapani, Agrigento.Vi aderirono insegnanti, avvocati, impiegati, giornalisti, notai. Le notizie provenienti dal Piemonte li indussero ad appoggiare il progetto unitario dei Savoia mettendo da parte ogni richiesta separatista. Sul fronte repubblicano resisteva Crispi, in perenne slalom tra mandati di cattura, esili, espulsioni, ma il sanguinoso insuccesso dei numerosi tentativi mazziniani l’aveva isolato.

Montò un’inarrestabile rabbia sociale. In essa confluirono l’accentuato malessere del proletariato per l’assenza di lavoro e di giustizia, la dura riprovazione della borghesia per l’assolutismo ancora vigente. Nella primavera 1859 il decesso di Ferdinando, sempre più grasso, sempre più detestato, e l’ascesa al trono del ventitreenne Francesco II suscitarono timide aspettative di cambiamento. Ma il nuovo monarca aveva un carattere debole, incapace di assumere decisioni univoche, alla perenne ricerca di un equilibrio, che per lui si tramuterà in compromessi sempre al ribasso. Oscillava tra apatia e fatalismo; alternava il sarcasmo al sospetto.

Il 7 giugno alcune migliaia di studenti riempirono il cuore di Napoli per salutare la vittoria nella scaramuccia di Magenta dei franco-piemontesi di Napoleone III e di Vittorio Emanuele II contro gli imperiali di Francesco Giuseppe. Era incominciata la seconda guerra d’indipendenza e sulle rive di Mergellina non potevano prevederne le conseguenze. Tra i candelabri del Palazzo reale troneggiava un enorme mazzo tricolore, ma il giovane sovrano fu molto preoccupato dalla manifestazione temendo che lo mettesse in cattiva luce con l’ala austriacante della corte. L’unità d’Italia veniva giudicata un affare da settari: il ’48 e il ’49 avevano lasciato pessimi ricordi. I liberali napoletani compresero di dover guardare ormai al Savoia e a Cavour, vittoriosi in luglio contro l’Austria, grazie al fondamentale soccorso della Francia. Il regno di Sardegna, cioè il Piemonte, poté così aggiungere al proprio territorio la Lombardia e meno di un anno dopo, grazie ai plebisciti, la Toscana, l’Emilia, gli ex ducati di Modena, Parma e Piacenza. Erano le regioni più ricche e progredite. Fosse dipeso da Cavour, che nei suoi viaggi mai aveva superato il Po, la campagna di annessioni si poteva concludere lì. Non pensava all’Italia unita e sotto sotto diffidava delle popolazioni meridionali, lontanissime dal suo modo di pensare.

Sulla Sicilia, sull’ipotesi di una rivoluzione era tornato, viceversa, a rimuginare Crispi. Il successo del Piemonte aveva modificato i pesi della bilancia. Crispi si era opposto alla guerra in combutta con Mazzini contro Cavour e contro quel Napoleone III, alla cui vita aveva attentato nel ’58 assieme a Felice Orsini, almeno secondo i sussurri del fuoriuscitismo italiano. La sconfitta dell’Austria poteva però favorire un’altra ribellione, sulla scia della precedente nel ’48. Il 26 luglio ’59, dotato di un falso passaporto statunitense, Crispi sbarcò a Messina, ricontattò i mazziniani: insieme fabbricarono ordigni esplosivi e ipotizzarono l’insurrezione per il 4 ottobre. Ma la sommossa fu dapprima rimandata e poi rinviata a tempo indeterminato. Crispi si convinse che in futuro non si sarebbe più dovuto contare sui comitati, influenzabili dai moderati, bensì collegarsi direttamente al popolo e che qualunque insurrezione avrebbe dovuto ricevere l’appoggio esterno di una spedizione militare. Lo scrisse anche a Mazzini. Ma proprio il legame fin lì indissolubile con l’architetto di tutte le insurrezioni fallite vacillava. Anche Crispi inclinava verso chi aveva dimostrato di saper vincere sul campo, la monarchia sabauda.

Neppure Cavour immaginava che il Regno delle Due Sicilie fosse una costruzione d’argilla sul punto di sbriciolarsi quasi da sola. Qualcosa subodorava Francesco II, ma riteneva di potervi porre rimedio. Possedeva diverse qualità, ma non quelle necessarie in una fase di grande cambiamento, alla quale gran parte della corte rispondeva «costruendo chiese, sciogliendo voti, ricoprendosi di amuleti» (De Cesare). In un’epoca di normalità sarebbe potuto risultare un sovrano avveduto e lungimirante, anziché il re sbagliato nel momento peggiore. Dalla primavera del ’59 la Storia si era messa a correre e Franceschiello, chiamato dal padre «lasa» per la passione delle lasagne, non era adatto ad afferrarla dalla coda.



Francesco è figlio della cattolicissima e sensibile Maria Cristina di Savoia (la Chiesa di recente l’ha proclamata beata), figlia, a sua volta, di Vittorio Emanuele I re di Sardegna, morta per le complicanze del parto (1836). E’ stato cresciuto dai padri Scolopi secondo rigidi precetti morali e religiosi, che ne hanno aumentato l’introversione e l’approccio complicato alla viva. L’influenza della madre ha dunque cancellato l’aggressività e la rozzezza paterne, che si sono sfogate con la seconda moglie, l’arciduchessa d’Asburgo Maria Teresa, capace di sfornare nove figli in vent’anni. Piccola, tozza, con un seno sproporzionato, bruttarella anziché no, in poco tempo ha messo tutta la corte in riga cominciando dall’innamoratissimo marito e se n’è fregata dell’antipatia crescente intorno a lei. Neppure Francesco è sfuggito alle intemerate della matrigna. Nei suoi confronti ha maturato un complesso d’inferiorità, dal quale non l’ha liberato nemmeno il matrimonio per procura, dopo uno scambio di miniature, con la corteggiatissima nobile bavarese Maria Sofia Amalia von Wittelsbach.

Una stangona, per i tempi, di 170 centimetri dotata di un corpo sinuoso, occhi blu, folta capigliatura castana. Giunta diciassettenne a Napoli si è incredibilmente invaghita dell’imbranatissimo marito, malgrado il giudizio tranciante di suo padre, «è un imbecille»; ne ha copiato i gusti alimentari, lasagne in testa; ha cercato di liberarlo da molti complessi. Purtroppo Francesco ha problemi anche nell’intimità: soffre di fimosi e non si decide ad affrontare la piccola operazione, che gli permetterebbe di godersi la fanciulla più desiderata d’Europa. Dormono in camere separate, appena Maria Sofia si assopisce Francesco entra nel letto per rimirarla tra un sospiro e l’altro, le riempie di baci le mani e le guance. All’alba si allontana mogio, mogio. Per sfogarsi a Maria Sofia non restano che le galoppate nei boschi e i tuffi a Posillipo, con grande sconcerto di patrizi e popolani. In seguito verranno tradimenti, amori clandestini, gravidanze indesiderate. Con montante stizza di Maria Teresa, il suo ascendente sul marito è totale: Francesco andrebbe sulla luna per assecondarla, al momento le concede di far partecipare ai pranzi ufficiali Lyonne, la magnifica cagna Terranova, che irrompe seguita dai cagnolini prontissimi a infilarsi tra le gambe dei commensali con scarso gusto di costoro.

Francesco ha ereditato dal padre uno Stato al collasso, che pare modellato sulla sua famiglia: scombinato, senza capo né coda, dove il primo a svegliarsi pretenderebbe di comandare. L’emblema è l’esercito, tutto apparenza e nessuna sostanza, uscito malissimo ogni volta che ne è stato richiesto l’intervento: è capitato nel ’21, si è ripetuto nel ’48 e poi nel ’49. D’altronde è basato sulle raccomandazioni e sul censo, lontanissimo da qualsiasi meritocrazia. E anche il Regno si basa su raccomandazioni e tradizioni, spesso usate per nascondere mediocrità e soprusi. L’arretratezza si avverte soprattutto nell’alimentazione. Pasta e pane rappresentano il nutrimento di ognuno: il consumo dei carboidrati sfiora il mezzo chilo giornaliero, il doppio che nel Settentrione. Significa che nell’intero Meridione formaggi, verdure, frutta, carni, legumi, ortaggi sono ignorati con notevole incremento della mortalità infantile. Ne consegue l’inarrestabile diffusione del diabete, purtroppo trasmettibile di generazione in generazione: l’aspettativa di vita si riduce assai rispetto al Nord. E se è vero che il Pil pro capite nel Mezzogiorno è superiore a quello del resto del Paese esso è frutto delle enormi ricchezze accumulate nelle mani di pochissimi a fronte di sterminate masse di poverissimi, i «cafoni», la cui esistenza niente ha da invidiare ai medievali servi della gleba.

Anche l’attivo di bilancio del governo viene conseguito a danno dei sudditi: mancano strade (su 1848 comuni, 1621 sono privi financo di una trazzera in grado di collegarli con il resto del mondo), scuole (il numero di analfabeti è esattamente il doppio di quelli del Piemonte, 84 per cento contro 42 per cento), ferrovie (si contano meno di 200 chilometri, in Piemonte 803, in Veneto 298, in Toscana 256, in Lombardia 202). E la linea ferrata si è estesa poco oltre le residenze reali di Portici e Caserta: tocca appena Capua, Castellamare, Nocera e Sarno. Di industrie all’apparenza floride ne esistono un paio, l’Opificio di Pietrarsa e i cotonifici di Salerno, in mano svizzera. Prosperano in un’economia assai protetta. Le officine di Pietrarsa godono di commesse garantite dalla Real Casa, che ne è la proprietaria; i cotonifici d’insuperabili barriere doganali. Già agli occhi di Ferdinando la situazione appariva talmente precaria da indurlo ad accatastare lingotti d’oro non nutrendo alcuna fiducia nelle banconote stampate dalla propria banca.

Che cosa sia la quotidianità è inquadrata dalle agghiaccianti pagine di un grande meridionalista come Luigi Settembrini: «Nel paese che è detto giardino d’Europa, la gente muore di vera fame e in istato peggiore delle bestie, sola legge è il capriccio, il progresso è indietreggiare e imbarberire; nel nome santissimo di Cristo è oppresso un popolo di cristiani. Questo governo è un’immensa piramide, la cui base è fatta da’ birri e da’ preti, la cima dal re: ogni impiegato, dall’usciere al ministro, dal soldatello al generale, dal gendarme al ministro di polizia, dal prete al confessore del re, ogni scrivanuccio è despota spietato e pazzo su quelli che gli sono soggetti ed è vilissimo schiavo verso i suoi superiori. Onde, chi non è tra gli oppressori, si sente da ogni parte schiacciato dal peso della tirannia di mille ribaldi: e la pace, la libertà, le sostanze, la vita degli uomini onesti dipendono dal capriccio non dico del principe o di un ministro, ma di ogni impiegatello, di una baldracca, di una spia, di un birro, di un gesuita…».

La società si divide in due categorie assai convenzionali: i «galantuomini» e i «non galantuomini». La prima categoria comprende chi vive di rendita o della propria professione e in ogni caso veste l’abito di gala chiamato con uno spagnolismo giamberga: è la divisa di quanti pretendono di aver diritto al don. Nella seconda categoria rientrano tutti gli altri. Dall’impiegato al proletariato più misero. Così il sostantivo, che nel resto della Penisola ha una caratterizzazione morale, nel Regno delle Due Sicilie ne acquisisce una esclusivamente sociale. E nell’ambito di questa classe dominante o disposta a molto per dominare è subentrata la divisione tra «prime giamberghe» e «vecchie giamberghe» cioè chi ha un passato, chi discende da famiglie di antico rango testimoniato dai palazzi aviti, dai beni esposti nelle stanze. E soltanto costoro si considerano i veri «galantuomini» con l’implicito dovere di mostrare la nobile ascendenza oziando – che cosa vi è può essere di più riprovevole che svolgere un’attività per la vil moneta? – e ritenendosi ben al di là della Legge, al massimo da usare contro i poveracci.

Ma la denuncia forse più urticante è quella di un dirigente apicale dell’amministrazione borbonica, Carlo Afan de Rivera, ingegnere alla guida di quello che può essere considerato il genio civile dell’epoca. Nelle sue «Considerazioni su i mezzi da restituire il valore proprio ai doni che la natura ha largamente conceduto al Regno delle Due Sicilie» descrive la situazione arretrata dell’agricoltura nel Sud preunitario, lo spreco continuo che viene fatto per incuria, per ignoranza, per singoli interessi dei tanti doni elargiti dalla Natura. Prestare il danaro al 10 per cento d’interesse è considerato un tasso ragionevole, quei pochissimi che lo prestano all’8 per cento vengono qualificati benemeriti della società. L’abbonamento di un anno con il medico costa 4 ducati (meno di 70 euro). Gli avvocati fanno la fame e se non la fanno diventano sospetti agli occhi dei potenziali clienti. C’è più fermento nelle farmacie che nei caffè.

I napoletani non prendono sul serio il monarca: ridono delle sue ingenuità, le ingigantiscono quasi a cercare una rivincita al panico, in cui hanno vissuto con il padre. Francesco ne è l’esatto contrario: l’unico sangue che lo innerva è quello anemico della madre, del genitore non ha ereditato i tanti difetti, ma nemmeno i pochi pregi, che pure gli servirebbero in una fase così cruciale di trapasso. Di Ferdinando gli è rimasto il senso invincibile di sfiducia nel Piemonte e nei suoi politici. Per il resto, la corona è un peso, il potere lo intimidisce, il governo una fatica improba preferendo, infatti, mediare fra troppi interessi e non imporre la propria volontà. Quasi niente lo intriga. Può saltare i pasti, ma non la messa giornaliera e il rosario la sera col padre scolopio Borrelli assieme al quale conversa di argomenti sacri riconoscendogli un’influenza, che il perbenismo del sacerdote manterrà nell’ambito religioso senz’allargarsi ad altri campi. E così darà una delusione agli altri componenti della robusta cerchia protesa a indirizzare le scelte del re.



Francesco ha cercato d’imprimere una svolta moderata, ma le intenzioni si sono scontrate con la sua natura ondivaga. Si è rivolto al più apprezzato dei sudditi, l’ex generale napoleonico Carlo Filangieri, principe di Satriano e da qualche anno pure duca di Taormina in riconoscimento dei meriti acquisiti nell’isola prima con la repressione del ’49, poi con la luogotenenza. Deve sostituire Ferdinando Troja, il reazionario premier per sette anni di Ferdinando II, dopo che suo fratello Carlo nel ’49 aveva provato a condurre lo stesso sovrano su posizioni riformiste. Innamorato dell’egemonia, Filangieri ha accettato di presiedere il consiglio dei ministri, nonostante gli acciacchi dei settantacinque anni. Anch’egli ha capito che il Regno ha bisogno di profondi cambiamenti: il suo suggerimento è stato di avvicinarsi alla Francia e alla Gran Bretagna, di varare una serie di opere pubbliche in grado di favorire l’occupazione. Ma l’unica attuata, un campo trincerato negli Abruzzi in previsione di un attacco garibaldino, si rivelerà autolesionista: ha indebolito, infatti, le altre guarnigioni del Regno e non servirà con lo sbarco nella lontana Sicilia.

La sopravvivenza di Francesco e di Filangieri è stata messa in pericolo dall’improvvisa rivolta di un reggimento di guardie svizzere – incomprensioni con il governo federale di Berna – e dal complotto di Maria Teresa per sostituire il figliastro con il primogenito Luigi conte di Trani. La ribellione dei mercenari è stata domata nel sangue, anzi ha fornito la scusa per congedare il corpo senza curarsi che costituivano il nerbo dell’esercito borbonico. Le prove della macchinazione di Maria Teresa sono state mostrate da Filangieri a Francesco, che le ha buttate nel camino dicendo: «E’ la moglie di mio padre». Graziata, però non doma Maria Teresa ha assunto la guida del partito austriaco e preso di punta Filangieri. Non potendolo accusare di aver sventato i suoi piani, ha fatto circolare la voce che sia lui a voler esautorare Francesco. Nei vicoli cittadini si è sentito ripetere: «Prima avevamo un re, che voleva fare il ministro; ora abbiamo un ministro, che vuole fare il re».

Il più attento alle aperture di Filangieri è stato Cavour: ha mandato un rappresentante personale, il conte Ruggiero di Salmour. Aveva il compito di sollecitare l’intervento nella guerra contro l’Austria, tuttavia Francesco si è opposto con durezza. A niente è valso lo spendersi dello zio Lepoldo, il conte di Siracusa, per quest’alleanza. Oltre ad avere in moglie una principessa sabauda, Leopoldo è sospettato di essere a stipendio di Cavour. Francesco e la sua cerchia filo austriacante, in cui svettava il generale Alessandro Nunziante duca di Mignano, non l’hanno tenuto in considerazione. Identico trattamento riservato alle istanze di un altro zio, Luigi conte di Aquila, sulla carta comandante della flotta (128 navi a vela e a vapore con 900 cannoni). Il sequestro di alcune casse di armi e di abiti confezionati e indirizzati al conte ha fatto pensare a una sua cospirazione per essere nominato reggente. In pochi mesi sarà costretto all’esilio.

Filangieri non è neppure riuscito a promulgare una modesta Costituzione, avara di concessioni, che aveva già ricevuto l’approvazione di Napoleone III. Francesco non ha voluto saperne. Il consenso dell’imperatore francese, considerato un protettore degli interessi piemontesi, l’ha inquietato: ha visto ombre inesistenti, ha lamentato un’eccessiva influenza straniera sulla corte. Invece Napoleone vorrebbe limitare l’espansionismo di Cavour: ha pressato Francesco affinché occupi Roma con la sua armata e gli subentri nel’onere e nell’onore di proteggere il Papa dalle mene del Piemonte. Ma Francesco ha rifiutato, si è sempre più rinchiuso negli assilli domestici. E’ fallita anche la formulazione di una nuova legge amministrativa, studiata dal ministro degli Affari siciliani Paolo Cumbo. Il disegno a lungo discusso, esaminato, criticato è stato infine giudicato pericoloso, soprattutto per la proposta di rendere elettivi i Consigli comunali, e accantonato.

A Filangieri è stato concesso un congedo di quaranta giorni anticamera delle dimissioni nel marzo 1860. Nello stesso periodo l’ambasciatore piemontese a Napoli, il marchese di Villamarina, ha segnalato la possibilità di un’irruzione dell’esercito borbonico nelle Marche, d’intesa con Napoleone III, per disinnescare gli effetti dei referendum in Toscana ed Emilia. Alle armi Francesco ha preferito la diplomazia. Non si fida del suo esercito all’apparenza ragguardevole, 90 mila uomini più 50 mila della riserva. Ma a parte i 16 battaglioni cacciatori (quasi 21 mila uomini) e i 3 esteri, in gran parte bavaresi, che hanno sostituito gli svizzeri, il resto è buono per qualche parata. Meno ancora il re si fida degli ufficiali e dei generali, anche se egli niente ha fatto per azzerare l’andazzo di carriere basate su raccomandazioni e vincoli di sangue o per migliorare l’addestramento e la qualità dell’armamento, in primo luogo dell’artiglieria.

La diplomazia per Francesco ha significato rivolgersi all’imperatore austriaco Francesco Giuseppe, che gli viene cognato avendo sposato la leggendaria Sissi, sorella di Maria Sofia. Lo ha invitato a sostenere le rivendicazioni di Pio IX, cui è stata sottratta Bologna, di Ferdinando IV di Toscana, dei duchi di Modena e Parma: in buona sostanza Francesco Giuseppe dovrebbe ripristinare il loro potere dopo le insurrezioni di marca cavouriana. Francesco ha spinto per un intervento immediato, prima che i plebisciti conferissero un avallo popolare alle annessioni. Ha addirittura tirato in ballo gli accordi di Plombières tra Napoleone e Cavour per rimarcare che non prevedevano cambiamenti di sorta nell’Italia settentrionale. Tuttavia l’Austria, appena bastonata nella seconda guerra d’indipendenza, non era più in grado di rivestire il ruolo di gendarme della restaurazione.

Francesco Giuseppe ha respinto la proposta, però ha mosso cancellerie e ambasciate europee per lanciare l’idea di una conferenza riguardante la risistemazione dell’Italia a seguito dei recenti eventi. Alla freddezza di Gran Bretagna e Prussia ha corrisposto un evidente e singolare disinteresse di Francesco: ha considerato più assillante il crescente disaccordo con i progetti di Filangieri. In tal modo «Lasa» ha perso l’ultima occasione di salire su una ribalta internazionale. Per sostituire Filangieri si è rivolto ad Antonio Statella principe di Cassano, un altro settantaseienne: non a caso i napoletani hanno commentato che fosse una riesumazione piuttosto che una designazione. Forse per non essere il più vecchio della compagine Cassano ha scelto il settantasettenne generale Francesco Antonio Winspeare come ministro della Guerra. In ogni caso ha significato il ritorno in auge di Troja, dotato di grande ascendente su entrambi. Negli stessi giorni è riapparso il conte di Siracusa con una lettera al nipote, che però ha circolato in tutti i palazzi. Lo zio ha scritto che il tempo stringeva, che i Borboni avevano una sola opportunità: associarsi ai Savoia o sparire.

Quanti vivono delle provvidenze reali l’hanno interpretato come un «si salvi, chi può». E’ aumentato il senso di precarietà del Regno. Nobili e militari si sono guardati intorno alla ricerca di una soluzione. Ciascuno ha badato al proprio tornaconto, si è messo sul mercato in attesa di un’offerta. Il traguardo ultimo non poteva che essere il Piemonte, dove Cavour ha già aperto il portafoglio per conquistare nuove fedeltà e nuovi appoggi. Nunziante si è messo di traverso a ogni progetto: secondo i malevoli per alzare il proprio prezzo con gli emissari di Vittorio Emanuele, malgrado la sua famiglia sia ritenuta tra le più legate al Borbone: il padre Vito nel 1815 è stato il generale che ha eseguito la fucilazione di Gioacchino Murat a Pizzo Calabro ed egli stesso nel ’56 ha propugnato con impressionante vigoria la pena di morte per Agesilao Milano, il soldato che aveva attentato a Ferdinando II.

La debolezza del trono napoletano ha ridestato le mai sopite rivendicazioni siciliane. Dietro lo schermo dell’interesse patriottico, dell’Italia da fare è spuntata l’antica voglia di riconoscimenti tangibili. Nell’immediato la divisione delle terre espropriate al clero: il governo l’aveva spesso promesso e mai attuato. I richiami alla rivolta sono risuonati da un angolo all’altro dell’isola. L’isola si è tramutata in una polveriera. Al malessere di vasti strati plebei e dei ceti più poveri bisognosi di giustizia e di lavoro si è aggiunto quello dei professionisti e dei commercianti. Ciascuno riteneva di avere un buon motivo per sollevarsi, ma ciascuno aspettava un aiuto militare dall’esterno. Forse i più restii erano i liberali moderati e i democratici bastonati nel ’48 e riluttanti a un’altra insurrezione armata. Però in febbraio è approdato a Palermo un fidatissimo inviato di Cavour, Enrico Benza accompagnato dalla bellissima moglie per sviare l’attenzione e il 2 marzo è giunta una lettera di Mazzini «Agli amici di Palermo e di Messina» con l’invito a osare. Simili fermenti sono stati colti dalla polizia, che ha accentuato i controlli di polizia e proceduto a diversi arresti. Eppure il Luogotenente, il generale Paolo Ruffo di Bagnara principe di Castecicala, ancora in marzo ha definito «tranquillissima» l’isola e trovandosi a Napoli all’annuncio dei tumulti apparirà il più stupito.



Le bande armate intercettate e respinte quel 3 aprile nei dintorni di Boccadifalco provengono dai villaggi dell’interno. Si sono mosse dietro la consueta promessa della terra e di altri riconoscimenti. Aspettano un segnale da Palermo, dove il malcontento è sul punto di eruttare. Altre bande vengono segnalate sopra Monreale, ai Colli, dalle parti di Santa Maria del Gesù. Il capo della polizia Salvatore Maniscalco intuisce che stia per esplodere l’ennesima ribellione anticipata dalle soffiate dei confidenti e dai grandi acquisti di viveri compiuti dal popolino. Uomo di fiducia di Filangieri e inviso a Statella, Maniscalco ha mantenuto l’incarico per la riconosciuta abilità e per l’indiscutibile lealismo. Nella difesa della causa borbonica si è macchiato di efferatezze e arbitrii: ha sedato con ferocia i moti del ’56, i suoi metodi sono stati violentemente criticati da alti dignitari della corona. E’ inviso ai liberali e ai mafiosi, ma è stato assai apprezzato da Ferdinando II: l’ha ricompensato affidando le riscossioni della dogana di Messina al figlio primogenito Angelo di 5 anni.

L’aver scampato l’ottobre precedente l’agguato di un killer pagato 600 ducati (circa 10mila euro) da nobili congiurati ha acuito la determinazione di Maniscalco nello stroncare ogni ribellismo. Il luogotenente Statella e il comandante della piazza, il settantenne generale Giovanni Salzano de Luna, che all’inizio del secolo ha esordito nella guerriglia anti francese con le bande di fra’ Diavolo, si fidano di lui e della sua rete informativa. Dunque inviano il capitano Chinnici a ispezionare il convento della Gancia, alla Kalsa, gestito dai frati dei Minori osservanti. Uno di essi, Michele da San’Antonino, ha rivelato a Maniscalco che in un magazzino del convento sono state occultate armi e munizioni per un’imminente ribellione e che la gran parte dei frati è complice. Ma l’imminente irruzione non rimane segreta: allertati, i frati riescono a nascondere armi e munizioni. I soldati di Chinnici niente trovano a eccezione dello scheletro di una donna senza testa.

Maniscalco e Salzano si rifiutano di credere alle apparenze. Ordinano a Chinnici di appostarsi con il buio intorno al convento. Nella notte entrano una sessantina di congiurati. Li guida un facoltoso fontaniere quarantenne, Francesco Riso già coinvolto nell’insurrezione del 1848 a Fieravecchia e molto intrigato sia dall’ideale patriottico sia dalla vanità di frequentare tanti bei nomi dell’aristocrazia. Dopo il fallimento del ’48, Riso ha svolto una lunga attività cospiratoria in seno ai comitati segreti. Adesso il via gli è stato dato da quello palermitano presieduto dal sacerdote Ottavio Lanza dei principi di Trabia e composto da giovani cresciuti alla scuola del barone Casimiro Pisani, ex alto funzionario borbonico tra i protagonisti dei vecchi moti. Ciascuno di loro ha portato in dote conoscenze, amicizie, parentele: su questa base hanno opinato di aver dietro uno strabocchevole seguito. Lanza e gli altri del comitato (Giambattista Marinuzzi, Enrico Albanese, Andrea Rammacca, Antonino Lo Monaco Ciaccio, Francesco Penone-Paladini, Giuseppe Bruno-Giordano) hanno ragionato per mesi sulla sollevazione, tuttavia alla prova dei fatti ci si accorgerà che non hanno badato ai dettagli, che il pressapochismo ha prevalso sulla diligenza, che la presunzione del censo ha indotto alla sottovalutazione della risposta legittimista. In effetti, gruppi di insorti sono arrivati dalle campagne dando la propria disponibilità: sarebbe però servito un piano dettagliato, che non fosse la generica sollecitazione di Crispi, ancora fedele all’idea mazziniana, ma già in avvicinamento a Garibaldi. Viceversa, gli ideatori poco si sono curati degli aspetti organizzativi. Contattati gabelloti e fattori per arruolare i braccianti con l’immancabile promessa della distribuzione di terra, contattati i clan mafiosi, che però sono rimasti a guardare in attesa di capire dove oscillasse il pendolo, si sono fidati di una reazione favorevole del popolo.

All’alba uno scampanio prolungato dovrebbe chiamare a raccolta gl’insorti. Accorre invece il VI battaglione del tenente colonnello Perrone. Il destino di Riso, dei rivoltosi, dei frati che combattono con loro è segnato. Una granata sfonda il portone, i soldati irrompono, cadono 19 insorti e un frate, pochissimi riescono a scappare dal giardino confinante con le strade della Kalsa. Sono messi in fuga anche i rinforzi condotti da Salvatore La Placa attraverso le viuzze del quartiere. Tra i prigionieri Riso e il giovanissimo figlio Antonio. I due sono gravemente feriti, moriranno nei giorni seguenti, tuttavia prima di spirare Antonio farà i nomi degli altri congiurati. A Palermo viene proclamato lo stato d’assedio. A Porta Carini è respinto il robusto assalto delle schiere provenienti dal circondario. Gli insorti si ritirano su Carini, che diventa il punto di raccolta della provincia.

L’insoddisfacente esordio non impedisce alla rivolta di estendersi rapidamente: il 6 aprile insorge Trapani, il 7 Marsala, nei giorni seguenti Messina, Girgenti (Agrigento), Caltanissetta, Corleone, Cefalù, Misilmeri. A Monreale i rivoltosi incappano nel reparto d’eccellenza, il IX battaglione cacciatori guidato dal maggiore Ferdinando Beneventano del Bosco: sono sgominati e addirittura inseguiti a pietrate. Gli abitanti parteggiano apertamente per i soldati. Manca una regia di base, spesso è il passaparola di notizie confuse e artatamente gonfiate ad accendere i fuochi. Si muovono soprattutto i ceti popolari, a volte perfino i mafiosi e tra i più determinati ricorre un Piddu Badalamenti, trisavolo del tristemente famoso Tano. I liberali e i democratici restano alla finestra. Alcuni proprietari terrieri si schierano con il Borbone, collaborano nel reprimere le agitazioni. Più che l’unità d’Italia, contadini, artigiani, operai chiedono un pizzico di equità sociale. Eppure spaventano i ceti borghesi preoccupati che le proteste di piazza possano sfociare nell’occupazione di città scarsamente presidiate.

A Palermo sono arrestati Lanza di Trabia e altri sei componenti del comitato insurrezionale. Sono duchi, principi, baroni. Li trattano con ossequiosa deferenza, ricevono persino un assegno mensile di 90 ducati (oltre 1.500 euro). Ben diversa la sorte dei tredici catturati nel convento della Gancia. Dinanzi al dilagare della rivolta vengono utilizzati per dare un esempio non essendoci, tra l’altro, in mezzo a loro alcun nome di rilievo. Sono fucilati il 14 dinanzi al bastione della porta di San Giorgio. Quattro giorni più tardi duemila soldati borbonici, guidati dai generali Cataldo e Gutenberg, irrompono a Carini. Si combatte casa per casa, il migliaio abbondante di rivoltosi è obbligato a una fuga disordinata. Avvengono saccheggi e soprusi di ogni tipo. I patrioti superstiti si ritirano il 20 aprile a Piana dei Greci. Li raggiungono due esuli di gran nome, Rosolino Pilo e Giovanni Corrao, che si adoperano per ricompaginare le file.

Dopo l’insurrezione del ’48, Pilo si è stabilito a Genova, ha frequentato Mazzini e inseguito tutte le rivolte disponibili: si è buttato a capofitto in quella di Milano nel ’53, non ce l’ha fatta a giungere in tempo a Palermo nel ’56. L’anno successivo si è unito a Pisacane, il duca di San Giovanni, uno dei più puri nella sua voglia di sacrificarsi per chi non sapeva che cosa farsene del suo sacrificio. Il primo tentativo di sbarco in Campania è fallito perché Pilo durante una tempesta ha buttato le armi in acqua; nel secondo tentativo ha sbagliato la rotta e fatto rientro a Genova lasciando Pisacane e Nicotera senza armi e senza rinforzi. Così è avvenuta la strage di Sapri, dei trecento giovani e forti, per quanto la realtà sia stata alquanto differente dalla leggenda.

Corrao ha lavorato al porto di Palermo prima di assurgere a protagonista della rivolta del ’48 e della guerra prolungatasi fino al ’49. Ha conosciuto il carcere e l’esilio, ha incontrato Pilo, ne è stato aiutato. Nel marzo ’60 hanno contattato Garibaldi, sostengono di avergli strappato la promessa di una spedizione in Sicilia, se riusciranno a far scoppiare l’insurrezione. La loro presenza lascia quindi presagire a molti che il personaggio più carismatico, e più fotogenico, del movimento patriottico sia sul punto di presentarsi. E la diffusione di questa voce crea maggior scompiglio di agguati e trappole. Manifestazioni avvengono nelle principali città; in faccia ai soldati si grida «Viva l’Italia» e «Viva Vittorio Emanuele».














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