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I figli della Storia


Non c’è siciliano che non si giudichi perfetto per occupare un posto stabile nella Storia, possibilmente al centro del proscenio. Essa, invece, continua a respingerci, ma forse non è stata quella matrigna che amiamo raffigurare. Molto peggio è andata quando la presunta Maestra di Vita, almeno secondo i romani, ha dovuto soccombere al talento e accogliere il malcapitato: se n’è vendicata infliggendogli un’infelicità senza eguali.

FEDERICO II

Il primo della lista è il figlio di un tedesco e di una siciliana di origine francese. Il padre era Enrico VI, la madre Costanza d’Altavilla. Il suo nome completo è Federico Ruggero Costantino, però sarà sempre chiamato Federico in onore del nonno paterno, il famoso Barbarossa, con cui in comune avrà anche lo stesso irriducibile avversario, il Papato. Pur essendo progenie e nipote d’imperatore, Federico nasce nel 1194 sotto un baldacchino al centro della piazza di Jesi. Inconsueto evento pubblico, che anticipa di quasi un millennio i reality televisivi. Dietro però si agitano i demoni della politica, del dominio di un’Europa, che si ritiene il centro del mondo. Federico li assaggia sin dal primo vagito. La madre ha quarant’anni, undici più del marito, e la sua gravidanza l’hanno guardata con scetticismo e sconcerto. Il parto è stato dunque preceduto dall’invito pubblico a chiunque abbia voglia di assistervi. Insomma, che tutti siano testimoni: non ci sono trucchi, non avvengono sostituzioni di neonato. Colui che viene al mondo è davvero il figlio di Enrico e di Costanza, l’erede al trono più ambito. E non ha sembianze luciferine.
I nemici di Enrico hanno infatti rispolverato una delle leggende prodotte dall’Anno Mille: sostiene che l’Anticristo sarà partorito da una vecchia monaca. Per l’epoca Costanza vecchia lo è e in convento ha vissuto finché nel 1186 il nipote Guglielmo, re di Sicilia, non l’ha tirata fuori per darla in sposa al ventunenne Enrico, erede del regno di Germania, figlio dell’imperatore Federico. E’ stato il classico matrimonio d’interesse: Guglielmo, senza prole, ha pensato di bloccare il declino degli Altavilla unendoli al rampante casato degli Hohenstaufen; Federico, da parte sua, ha coltivato il sogno di ricomporre l’antico Sacro Romano Impero aggiungendo l’Italia ai territori tedeschi e francesi. La celebrazione è avvenuta nella basilica milanese di Sant’Ambrogio senza invitare il Papa, Celestino III, per rimarcare le pretese sveve sull’Italia, malgrado la batosta subita dal Barbarossa qualche anno prima a Legnano: era stata l’epopea del Carroccio e dell’inesistente Alberto da Giussano, non a caso futuro simbolo della Lega Nord.
Nonostante la differenza d’età e la scarsa avvenenza di Costanza, che delle badesse, pur senza esserlo divenuta, ha assunto l’aspetto, l’unione ha funzionato. Un po’ meno i piani di Federico e di Enrico. Principi, duchi, baroni, repubbliche marinare e le germoglianti signorie comunali del Settentrione non accettano di essere assoggettati sotto un unico trono. Sono decenni d’incessanti guerricciole. Spenta una, ne scoppia un’altra. Ad accenderle, o a far sì che il fuoco sotto la cenere mai si spenga, la longa manus del Pontefice e dei suoi vescovi preoccupati che il sorgere della Nazione italica ne riduca il potere. Celestino III può anche cedere alle pressioni del popolo, rabbonito dai tedeschi con la distribuzione di sacchi d’oro, e mettere la corona imperiale sulla testa di Enrico, ma un minuto dopo riprende a tessere le proprie trame per tagliare le unghie al neo imperatore re d’Italia e di Borgogna. Al Papa risultano indigesti sia l’unione tra le due dinastie, sia il doverne accettare il dominio in un antico feudo ecclesiale come la Sicilia sprofondata nell’anarchia con la morte di Guglielmo. Ma il suo tentativo di legittimare la successione di Tancredi, nipote naturale di Costanza, viene frustrato dal misterioso decesso dello stesso Tancredi e del figlio maggiore Ruggero. L’ambiziosissimo Enrico dimentica la promessa di rinunciare alla corona siciliana portata in dote dalla moglie. Aiutato dalle flotte pisana e genovese si avventa con un esercito poderoso sui domini normanni, spiana le città nemiche, in autunno riceve il giuramento di fedeltà dei recalcitranti feudatari. Il 25 dicembre 1194 è nominato a Palermo anche re di Sicilia: medita di farne un feudo personale degli Hohestaunfen, intangibile persino per il Regno d’Italia e per l’Impero.
Agli occhi di Enrico la Sicilia ha un pregio inestimabile: la struttura statuale sconosciuta alla Germania, all’Italia, alla Borgogna. La massa dei funzionari e l’efficienza della burocrazia garantiscono che la volontà del sovrano combaci con la legge. Una serie di fortunate circostanze e di lungimiranti governatori, emiri, re hanno prodotto il costante miglioramento della macchina amministrativa dai bizantini agli arabi, dagli arabi ai normanni. Alla continua ricerca di una legittimazione definitiva del proprio ruolo, Enrico individua nella Sicilia la base sicura alla quale, in seguito, aggiungere il resto. Che poi assieme agli altri possedimenti di Costanza in Puglia, Calabria e Campania consenta di accerchiare geograficamente lo Stato della Chiesa non gli deve apparire, al momento, determinante.
Ecco il contesto nel quale Federico vede la luce. Costanza è così incredula che il parto sia andato per il meglio, che lei e il nascituro stiano bene da aspettare due giorni prima di dare l’annuncio ufficiale, il 26 dicembre anziché il 24. Al primogenito impone inizialmente il nome di Costantino a sottolineare la pseudo discendenza del proprio casato e i suoi diritti sul trono siciliano appena occupato dal padre. Costanza deve però abbandonare in fretta il figlio: dall’amata Sicilia le giungono notizie rabbrividenti. Il consorte ha deciso di usare la ferocia per piegare quanti, laici o ecclesiastici, siano sospettati di rimpiangere Tancredi e la dinastia degli Altavilla. Spesso assieme alla vita perdono gli averi incamerati dal nuovo monarca. Ne fa le spese anche Gugliemo, il bambino di Tancredi: viene accecato ed evirato. Poi lo deportano assieme alla madre, Sibilla di Acerra, in Germania. Costanza sente di dover raggiungere al più presto l’isola, dov’era per altro diretta prima della sosta obbligata a Jesi. Spera di poter indurre il freddo e calcolatore Enrico alla mitezza, a non infierire contro gli antichi sudditi. Costanza esprime al meglio le doti di tolleranza, che hanno contrassegnato i centocinquanta di supremazia normanna nel Meridione. Sotto di loro, com’era avvenuto con gli emiri, hanno continuato a coesistere e a prosperare cristiani, ebrei e musulmani. Lei stessa è stata permeata dalla cultura araba perfettamente amalgamatasi con le altre. Affidato dunque Costantino non ancora Federico alla tutela del duca di Spoleto, Corrado di Urslingen, raggiunge la Sicilia. La trova in preda al malcontento e al terrore, con cui Enrico spera di metterlo a tacere.
Costanza è forse già disillusa sul matrimonio, piena di acrimonia nei confronti dei tedeschi persecutori della propria gente. Non ha però l’occasione di confrontarsi con il marito. Enrico rientra in Germania all’inseguimento di una sintesi fra le tante etnie e i troppi interessi che si agitano nei suoi territori. Il sovrano che mai sorride, definizione di un contemporaneo, offre ai Principi l’ereditarietà dei patrimoni e ai Vescovi la facoltà di scegliere i successori. In cambio chiede ai primi di eleggere re l’infante - viene designato nella Dieta (il moderno Parlamento) di Francoforte - e alla curia di Roma di associarlo alla corona imperiale. Ma Celestino III rifiuta: la tenaglia di Enrico minaccia di strangolare la Chiesa. Allora l’imperatore prepara il colpo di scena per evidenziare sin dal nome le prerogative dell’erede. Combina il secondo e ultimo incontro con il figlioletto. L’autunno del 1196, nella cattedrale di San Rufino di Assisi, viene battezzato Federico Ruggero Costantino. Federico per confermare ai grandi elettori tedeschi che li guiderà il nipote del Barbarossa; Ruggero per ribadire la fondata rivendicazione del trono siciliano in quanto erede di tutti i Ruggero normanni; Costantino per riaffermare i diritti sull’Impero di Oriente maturati attraverso il matrimonio dello zio paterno, Filippo di Svevia, con Irene, figlia dell’imperatore di Costantinopoli, Isacco II Angelo. E considerato che Enrico ha in preparazione l’immancabile crociata, per riuscire lì dove il padre ha fallito, possiamo immaginare che Federico Ruggero Costantino avrebbe avuto altri troni e altri reami da esigere anche senza aggiungere nomi.
Che cominci con Federico la pretesa, tipicamente siciliana, di esser buoni per tutte le parti in commedia?
La risposta a tanta e vistosa dichiarazione di forza è immediata. Il terreno di scontro rimane la Sicilia. Nelle improvvise sommosse Enrico scorge gl’intrighi di Celestino III. Non sbaglia. Gli ambienti della curia sono stati viepiù insospettiti da quel nome, Costantino, che ricorda l’imperatore romano, cui la Chiesa deve la propria supremazia. Magari temono che l’Imperatore voglia mettere becco nella clamorosa ’donazione di Costantino’, sbandierata un secolo prima da Leone IX e appena introdotta nei decreti. E’ un falso smaccato, ma il Papato lo usa per legittimare il potere temporale, per avvalorare la proprietà di vasti feudi. Di conseguenza, non può consentire la minima incertezza.
Enrico ricorre di nuovo al terrore. Catania ed Enna pagano un prezzo talmente alto da far sospettare la mano di Costanza nel malore improvviso che l’ammazza a soli trentadue anni (28 settembre 1197). Federico eredita il caos e l’anarchia già ereditati dal genitore alla scomparsa del Barbarossa. Con la differenza che deve compiere tre anni: la sua unica difesa è una madre circondata da troppi nemici. Costanza non può che rivolgersi ai dignitari normanni per proteggere il figlio e per tenere a bada gli odiati germanici. La loro espulsione viene chiesta dai sudditi il giorno dell’incoronazione di Federico, 17 maggio 1198. Accontentarli non basta a sedare i tumulti. A soffiare sul fuoco sono i baroni: puntano all’anarchia per accaparrarsi privilegi ed esenzioni. Costanza gioca la carta della disperazione: supplica l’intervento del vecchio alleato della propria famiglia, il Pontefice. Da qualche settimana è stato designato una personalità spiccatissima, capace di segnare l’intera avventura della Chiesa, Innocenzo III, al secolo il cardinale Giovanni Lotario. E’ molto giovane, trentasette anni: il padre appartiene a un antico ceppo tedesca, la madre a una nobile casata romana. Dal palazzotto di Segni è andato via presto: ha studiato a Parigi e a Bologna, si è laureato in scolastica e giurisprudenza. Lavorando nella curia di Clemente III e di Celestino III ha affinato doti non comuni di statista. Ma la sua vista lunga spazia pure su problemi più pedestri, uno di questi è il ponte sospeso sul Gottardo approntato dai Fratelli Pontifici: è un’opera che lascia a bocca aperta i contemporanei e anticipa il futuro. Il suo programma è assai preciso e autoritario: ogni potere dei sovrani non può che discendere dalla Chiesa, giacché essa è l’unica in grado di ratificarlo. La morte di Enrico ha dissolto gl’incubi dell’accerchiamento, Innocenzo, però, desidera impedire che altri in futuro possano accarezzare simile progetto. Accoglie quindi la richiesta di Costanza, ma pone condizioni pesanti: appannaggio personale di 30 mila talenti per garantire la migliore educazione a Federico, rinuncia a tutte le immunità godute in passato dai monarchi normanni, pratica impossibilità per i re di Sicilia di accampare pretese imperiali.
Alla morte di Costanza, lo stesso giorno in cui è spirato il marito l’anno prima, la tutela di Federico diventa un piccolo affaire di Stato. Gualtiero di Palearia, vescovo di Troia, vicino Foggia, riceve l’incarico ufficiale, tuttavia a seguire l’altolocato orfano è il vescovo Rinaldo di Capua, cui risponde frate Guglielmo Francesco, che ne è il precettore. Assieme a lui operano il fratello di Gualtiero, Gentile di Manopello, e un imam musulmano. Con il beneplacito della Santa Sede avviene una felice mescolanza di religioni, di costumi, di culture senza precedenti. La Sicilia, d’altronde, è considerata una sorta di territorio franco. Per durare gli Altavilla, non potendosi affidare a una supremazia militare sempre in bilico, si sono affidati alla coesistenza pacifica con le popolazioni presenti sull’isola. Accanto alla tradizione latina si continuano, perciò, a osservare usanze arabe, ebree, greche. La testimonianza più evidente è nell’architettura dei quartieri: alle abitazioni d’epoca romana e bizantina si alternano le basse palazzine dall’intonaco bianco. Nei curati cortili interni svettano palmizi, platani, cipressi; nel mezzo scintillano laghetti pieni di cigni, di anitre, di pavoni. E’ un brillio di colori e di gioia di vivere fin da quando nel resto della Penisola ci si arrabattava nella paura delle scomuniche e in mezzo a divieti d’ogni vivere. A corte domina la pittoresca foggia araba delle vesti e dei copricapo. Sono abituali gli spettacoli di spogliarello, protagoniste giunoniche ragazze indiane, e le esibizioni di corpi di ballo formati da splendide artiste di colore. Prosperano saloni di bellezza per uomini e donne. E’ tale l’importanza attribuita all’aspetto che fra i ragazzi poveri una delle attività più conosciute consiste nel girare per strade e piazze con uno specchio, nel quale gli elegantoni possano controllare abbigliamento e capigliatura. Di specchi sono piene anche le case assieme a tappeti, sofà, candelabri d’argento. Si bevono il tè e il caffè, si praticano il gioco degli scacchi e della tavola reale, ma la passione di borghesi e plebei sono i dadi.
Federico cresce felice dentro una realtà tanto variegata. A quattro anni sa leggere e scrivere. Ascolta e assorbe ogni racconto, gl’insegnamenti toccano davvero tutti i campi dello scibile. La lingua quotidiana è il dialetto siciliano, tuttavia impara senza fatica l’arabo, il greco, l’ebraico, il latino, il francese, il tedesco, lo spagnolo. Trova anche il tempo di appassionarsi ai cavalli e alla caccia. E’ già stupor mundi. L’unico ritratto ce lo mostra di corporatura robusta, di altezza superiore alla media del tempo. L’aspetto risente delle tante ascendenze: capelli castani, occhi chiari con lieve strabismo, naso prominente, gote rosee, quasi glabre, labbra sottili e nervose. Nell’insieme un pezzo d’uomo con sfavillio luciferino nell’espressione e l’assoluta consapevolezza di voler guardare il mondo dall’alto in basso. Il carattere rispecchia le contraddizioni paterne: osservante, ma ribelle all’autorità religiosa, guerriero e sensibile alle arti, caparbio e permaloso, crudele e raffinato, spietato e magnanimo.
Immerso in una tal quantità d’interessi e d’impegni, Federico neppure s’accorge degli intrighi e delle schermaglie che avvengono intorno a lui e in suo nome. Comincia un emissario dello zio paterno, Filippo di Svevia, proseguono vescovi e baroni: c’è chi lotta per sottrarlo alla tutela pontificia, chi per restituirvelo con passaggi di fronte così repentini, che nemmeno nell’attuale assemblea regionale. Da Roma Innocenzo lancia anatemi e occhiate distratte. La sua attenzione è dedicata alle grandi controversie internazionali, in testa a tutte la quarta crociata. Si risolve in un fiasco clamoroso: non libera Gerusalemme; trasforma l’Impero d’Oriente in Impero latino d’Oriente; a causa del ferocissimo saccheggio di Costantinopoli scava un solco tra europei e bizantini mai più colmato. La sola a guadagnarci è Venezia: guidata dal doge novantenne Enrico Dandolo riprende il possesso di Zara, della Dalmazia, vi aggiunge le isole Ionie, Candia, Negroponte, Gallipoli, le terre vicine. Da Costantinopoli sono asportati i quattro cavalli di bronzo con cui nel 1204 viene addobbato il portale della basilica di San Marco.
La tutela su Federico si conclude nell’anno, 1209, in cui Innocenzo gl’ingiunge di sposare, per i consueti motivi dinastici, Costanza d’Aragona, che ha dieci anni di più e un matrimonio alle spalle. Negli stessi mesi il Papa decide di separare le due corone, quella imperiale e quella italiana. In San Pietro consacra imperatore Ottone di Brunswick. Gli Hohenstaufen la giudicano, non a torto, un’usurpazione, però per le loro rivendicazioni non puntano su Federico, bensì sullo zio Filippo. In Germania divampa una sanguinosa guerra civile. L’Imperatore e il Papa provano a darsi reciproco sostegno. Innocenzo nomina Ottone anche Re dei Romani. Ottone si sdebita riconoscendo allo Stato Pontificio larghe fette delle regioni intorno al Lazio e gli antichi diritti sul trono di Palermo. I romani però mostrano il viso dell’arme al Re appena incoronato: i suoi doni non soddisfano l’avidità del popolo. Le milizie tedesche vengono sottoposte a numerosi episodi di guerriglia. Sopraggiunge pure un’epidemia di colera. Ottone lascia precipitosamente l’Urbe e si rifà proprio sul Papa. I suoi armati dilagano in Toscana, sottraggono a Innocenzo gli antichi possedimenti della contessa Matilde. Nel novembre 1210 il Papa scomunica Ottone, questi occupa le principali città del Meridione e aizza gli abitanti della Città Eterna contro Innocenzo, che lo ripaga con egual moneta: invia emissari in Germania per sobillare una rivolta contro di lui. Il suo anatema fa terra bruciata intorno a Ottone. Anche gli alleati più fedeli lo abbandonano. I principi tedeschi ricordano all’improvviso che esiste un figlio di Enrico VI: sono pronti a proclamarlo Re dei Romani, anticamera dell’Impero.
Innocenzo fa giungere il proprio favore, invita Federico nella Città Eterna, mentre Ottone tenta faticosamente di rientrare dalla Puglia in Germania. Le città del Settentrione, che appena pochi mesi prima l’hanno acclamato, gli chiudono ora le porte in faccia. Ben altro clima si respira intorno a Federico, arrivato a Roma nell’aprile 1212. Il Papa lo accoglie con tutti gli onori. Lo invita a dirigersi subito in Germania, è persino disposto a rifornirlo di pezzi d’oro per conquistare il favore dei Grandi Elettori, gli promette la corona imperiale, purché tenga separati il regno siciliano da quello tedesco e riconosca alla Chiesa i privilegi e le terre di cui abbisogna. Inutile dire che Federico, avendo tutto a conquistare e niente da perdere, è pronto a ogni concessione. Proiettato a diciotto anni sul palcoscenico della Storia, è consapevole che non ne scenderà più fino alla morte. Parte, dunque, per Magonza con la benedizione del Papa già volto ai nuovi impegni: la convocazione del IV Concilio, la guerra santa contro i musulmani di Spagna e contro i Catari della Francia meridionale accusati di eresia.
Dopo la proclamazione nel duomo di Magonza, Federico conquista la simpatia dei vecchi feudatari. E’ abile nel curare un rapporto speciale con Innocenzo. Nel 1213 con la ’Bolla d’Oro’ conferma la separazione fra Impero e regno di Sicilia, la rinuncia ai diritti in Italia. Tuttavia la sua sorte è intrecciata ad altri destini. Si è legato a Filippo Augusto re di Francia impegnato nella guerra contro il sovrano inglese Giovanni Senza Terra, zio di Ottone. La vittoria del primo nella battaglia di Bouvines (27 luglio 1214) significa anche la vittoria del ragazzo che vuole farsi Imperatore. In poco tempo gli alleati di Ottone fanno promessa di fedeltà a Federico; la caduta di Colonia e di Aquisgrana segnano la fine della guerra civile. Al termine della messa solenne nella cattedrale di Aquisgrana il rampollo degli Hohenstaufen, ben attento a far dimenticare abitudini e mode siculo-arabe, visita la cripta in cui è custodito il sarcofago di Carlomagno. Depone in terra il mantello, la corona, la spada. Quindi scoperchia l’urna, s’inginocchia, si raccoglie in preghiera. Una grande recita al termine della quale, come se avesse ricevuto un’ispirazione divina, annuncia al vescovo Sigfrido che si lancerà in una crociata per liberare il Santo Sepolcro di nuovo nelle mani dei musulmani.
E’ miele per le orecchie di Innocenzo assorbito dagli assilli del Concilio. Vi assiste anche Federico in evidente soggezione dinanzi al Pontefice, cui deve il proprio rango e del quale teme la straordinaria abilità politica. Non deve perciò patirne molto l’improvvisa scomparsa. Il successore, con il nome di Onorio III, è il novantenne cardinale Cencio Savelli. Federico lo conosce bene: era l’inviato d’Innocenzo per controllare i progressi della sua educazione. Onorio ha un solo assillo: la riconquista di Gerusalemme. Esercita frequenti pressioni sull’antico pupillo, ma questi è assillato da notevoli grattacapi. Il principale: garantire il trono di Germania al figlioletto Enrico. Che è soltanto il primo di una lunga lista. A differenza del padre, Federico è molto sensibile al fascino femminile. Malgrado i matrimoni in serie, i problemi dinastici, le guerre di qua e di là del Mediterraneo mai tralascerà l’occasione di corteggiare una bella ragazza. Al momento, però, Enrico è l’unico erede e su di lui si appuntano le ambizioni paterne. La Dieta di Francoforte deve alla fine cedere e nominarlo Re di Germania. Risulta determinante l’appoggio dei vescovi, che non è stato gratuito. Federico li ha conquistati alla causa con un apposito trattato (Confoederatio cum principibus ecclesiasticis). E’ considerato una delle più importanti fonti legislative del sacro Romano Impero in territorio tedesco. Alle eminenze viene riconosciuto il diritto di battere moneta, di esigere tasse, di costruire fortificazioni, d’insediare tribunali, di veder applicate le loro sentenze dai tribunali del Re o dell’Imperatore, di attribuire valore civile e penale alla scomunica religiosa. Si stringe insomma l’alleanza fra la giustizia amministrata dai vescovi e quella statale. Fra poco seguirà un accordo simile con i principi. Diventano i controllori dell’ordine sociale per conto del monarca. Federico sacrifica la centralità del potere a un accordo duraturo con i Grandi Elettori, che d’ora in avanti governeranno in suo nome.
Onorio preme per la Crociata. In Egitto da un paio di anni si battono con alterna fortuna gli eserciti di Andrea II re d’Ungheria e di Leopoldo VI d’Asburgo. Servirebbero rinforzi e una guida carismatica. Servirebbe, in una parola, Federico. Nella speranza di metterlo davanti alle proprie responsabilità il Pontefice gli concede, il 22 novembre 1220, l’agognata incoronazione imperiale in San Pietro. Pur di vederlo partire per la Terrasanta accetta che Federico lasci a se stesso l’ultima parola sulla Germania e mantenga il trono siciliano, dal quale avrebbe dovuto in teoria abdicare. Non è soltanto una questione di cuore o di qualità della vita. Negli equilibri geopolitici del Basso Medio Evo l’isola può vantare l’ottima posizione strategica nel Mediterraneo, la disponibilità di buoni porti da cui raggiungere l’Africa e il Medio Oriente, la fiorente agricoltura, che ne aveva già fatto il principale granaio di Roma antica. Altro che rinunciarvi, Federico ne esige un controllo assoluto. Con l’introduzione del diritto romano nell’accezione giustinianea vengono sottratte ai baroni le concessioni del passato. L’ordine di abbattere taluni castelli provoca reazioni violente. La liberazione di Gerusalemme passa in secondo piano. Quale contentino per il Papa viene decretato il bando dei presunti eretici e la confisca dei beni. Significa l’esordio di quei tribunali speciali dove si condanna sulla base di vaghi sospetti e di labili indizi. In buona sostanza un micidiale processo alle intenzioni. Nel 1224 ai colpevoli affibbiano anche il rogo e il Papato ha bell’e pronto l’infernale meccanismo della Santa Inquisizione. La Chiesa vi ricorre nel timore che le eresie dei Catari e dei Valdesi facciano proseliti. Per contrastarle Onorio si è affidato a un frate spagnolo, Domenico, di pronunciata personalità e di granitica fede. Nasce l’ordine dei Frati Predicatori, meglio conosciuti come i Domenicani. Diventa la fucina delle teste pensanti (un nome su tutti, Tommaso d’Aquino), dei missionari, degli implacabili funzionari dell’Inquisizione.
Accusato di boicottare la crociata per non guastarsi con il sultano d’Egitto, Federico s’impegna ufficialmente di bandirla entro l’estate del 1227. Confida di avere il tempo necessario a strutturare in un’unica entità i diversi troni che compongono il suo dominio e che il Vaticano vorrebbe tenere distinti. Cerca, perciò, di minarne l’autorità con l’occupazione di suoi territori, con la confisca di beni ecclesiali, con la designazione di vescovi amici. Risveglia però le preoccupazioni del Settentrione. Rispunta la Lega Lombarda e si mette di traverso al progetto imperiale di una Dieta a Cremona: ai delegati di Federico è impedito l’accesso. A mescolare le carte, la scomparsa del quasi centenario Onorio e l’ascesa al soglio di Gregorio IX, il conte Ugo di Segni cardinale di Ostia. Anch’egli è assai anziano, pieno di acciacchi, ma molto meno remissivo del predecessore. Purtroppo per Federico ne coltiva l’identico sogno: la riconquista di Gerusalemme. Bisogna, dunque, imbarcarsi, e senza indugi, dal porto di Brindisi verso la Palestina (settembre 1227). Ma la pestilenza s’abbatte sulla spedizione, falcidia i crociati, colpisce lo stesso Federico, che ne scampa a stento. E’ d’obbligo rientrare in Puglia.
Gregorio s’imbizzarrisce. Ritiene che si tratti dell’ennesima scusa. Promulga la scomunica dell’imperatore e la ribadisce dopo pochi mesi, marzo 1228, nonostante una lettera di giustificazioni. Si scatena una guerra di comunicati. Da Roma tacciano l’Hohenstaufen di spergiuro, di tradimento, di ateismo; lui ribatte con l’accusa di corruzione, di simonia, di dispotismo. C’è del vero, e non in modica quantità, in ognuna delle singole imputazioni, che ciascuna parte rovescia sull’altra. Ci s’insulta a sangue per una supremazia assai terrena, lontana da qualsiasi esigenza morale, da qualsiasi impulso spirituale. L’Impero e l’Italia si spaccano in due: tornaconto, opportunismo, velleità diventano la stella cometa di parecchi. I romani paradossalmente scelgono Federico, riempiono di contumelie Gregorio, lo obbligano a rifugiarsi a Viterbo. Il battagliero Pontefice replica con un terrificante anatema.
Federico non si sente, però, così forte da condurre la sfida alle estreme conseguenze. La scomunica lo scopre su troppi fronti. Per farla revocare non resta che ripartire. Lo fa a giugno. Ma in Terrasanta i cristiani lo accolgono come un appestato. Rifiutano di assecondarlo. Allora, con uno dei colpi d’ingegno non insoliti, Federico allaccia una trattativa diretta con il sultano Al Kamil. Sono mesi d’estenuanti scambi di missive e di emissari. A giocare un ruolo preponderante è la straripante cultura araba sfoggiata dal campione del Cristianesimo. Al Kamil se ne fa sedurre: non solo firma il trattato di pace, ma accetta anche di cedere Gerusalemme, Acri, Giaffa, Sidone, Nazareth, Betlemme. Un successo senza precedenti, se la liberazione del Sepolcro di Gesù fosse il solo, reale obiettivo. Viceversa, dietro le apparenze si agita ben altro. A Gregorio, sul punto d’impossessarsi dei tribunali dell’Inquisizione per trasformarli in uno spietato strumento di supremazia, l’Hohenstaufen puzza di zolfo. Lo sospetta d’inconfessabili intese con il nemico. S’inquieta per le manifestazioni di stima e di simpatia degli islamici nei confronti dell’Imperatore. Che guerra santa è mai stata, se agli infedeli non è costata una stilla di sangue? Ad aumentare i suoi retropensieri la corona di re di Gerusalemme ricevuta da Federico nella Basilica del Santo Sepolcro (18 marzo 1229). L’ha accampata in quanto marito di Jolanda di Brienne, a sua volta regina di Gerusalemme: che sia morta da un anno nel dare alla luce Corrado è un intoppo in meno per lui e una prova in più di malafede per Gregorio.
Da scomunicato Federico diventa l’obiettivo di una clamorosa crociata. I suoi territori nel Meridione vengono invasi. La Lega Lombarda riprende le armi, l’Italia torna a dividersi fra guelfi, sostenitori del Pontefice (dal nome della nobile famiglia bavarese Welfen), e ghibellini, sostenitori dell’imperatore (da Wibeling, castello in Franconia antica sede degli Hohenstaufen). Federico rientra di gran carriera in Puglia, tuttavia Gregorio respinge gl’inviti all’accordo. C’è bisogno che le truppe imperiali mettano a ferro e a fuoco i castelli e le città del Papa per indurlo a riconoscere che la sesta crociata qualche risultato l’ha ottenuto, malgrado i senzadio non siano stati sterminati. E per quanto Gerusalemme sia stata riconsegnata priva dei bastioni e delle opere difensive, su di essa sventola comunque la bandiera della Cristianità. In conclusione, la scomunica può essere ritirata. I due organizzano finalmente un incontro ad Anagni (1 settembre 1230). Nell’occasione Federico s’impegna a restituire le proprietà confiscate alla Chiesa e a riconoscere il vassallaggio della Sicilia al Pontefice. Troppo smagati entrambi per non sapere che è soltanto la quiete in attesa della prossima tempesta. Li separano usi, costumi, obiettivi.
L’Hohenstaufen coltiva ormai in privato abitudini da satrapo. Nelle vene gli scorre sangue svevo-normanno, ma a incidere su di lui sono stati gl’influssi greco- mussulmani respirati durante l’infanzia in Sicilia. Trasforma il suo genetliaco, 26 dicembre, in festa nazionale con generose elargizioni ai poveri. Alimenta il culto della propria persona e gli piace esser trattato da semidio. Anzi, ama che i professori nelle scuole lo paragonino a Dio, pur non credendo egli in Dio. Ma per motivi di ordine pubblico combatte ogni eresia e pretende dai sudditi cieca fedeltà al credo religioso. E’ un laico, predilige la battuta, coltiva la tolleranza, fonda a Napoli la prima università pubblica - le altre tre, Bologna, Vicenza e Padova, sono private - vivaio della burocrazia statale. Studia gli uccelli, gli alberi, le pietre. Seziona i cadaveri, esanima le viscere, cura da solo i mille animali dello zoo personale. Sa di medicina e di anatomia, sperimenta pozioni, che successivamente divengono farmaci di largo uso. E’ in corrispondenza con il matematico pisano Leonardo Fibonacci, scopritore della famosa successione numerica che porta il suo nome. A prescindere dalla fede, i sudditi hanno libero accesso ai mestieri e all’istruzione, tuttavia esclude gli arabi dall’amministrazione pubblica e obbliga gli ebrei a indossare abiti speciali, a farsi crescere la barba. La sua corte appare un luogo di delizie colma di quei nani e ballerine, che oggi indicano un livello basso, ma allora rappresentavano la garanzia di un carnevale continuo. Assieme a essi buffoni, eunuchi, giocolieri, musicisti, poeti, giuristi. Nella massima considerazione viene tenuto il maestro sufi Ibn-Sab’in. Con lui l’Imperatore discute di filosofia, da lui viene guidato in quell’empireo astratto dove tutte le credenze e tutte le ideologie s’incontrano a maggior gloria dell’uomo. Gli unici a esser tenuti distanti sono i monaci. A loro Federico preferisce i paggi, li circonda di attenzione, non bada alla terribile insinuazione di essere un omosessuale: per sodomia si può esser condannati a morte. Magari se ne diverte. Né è tipo da privarsi, per paura del giudizio altrui, di qualsiasi esperienza, se appena appena l’incuriosisce. Manifesta la pretesa o l’ambizione, tipicamente siciliana, di accogliere il mondo fra le proprie braccia pur non sapendo poi che cosa farsene.
E’ così legato alle dolcezze quotidiane di cui si circonda da trascinarsi dietro l’imponente seguito in ognuna delle trasferte. Ingaggia architetti e scultori per erigere le numerose costruzioni, sintesi delle tendenze europee e musulmane, con le quali costella il proprio tempo: Foggia e Lucera competono con Palermo nell’eleganza e nello splendore. Spesso vi si esibiscono i talenti più rappresentativi da Sordello a Folquet da Romans, da Jacopo da Lentini a Guido delle Colonne a Aimerie de Peguilhan. E’ la sorgente ideale da cui far sgorgare la nuova lingua, il volgare, pronto ad affiancarsi e a sostituire nell’eloquio giornaliero il latino dell’ufficialità. L’usano anche Federico e i figli Enzo e Manfredi nei componimenti poetici, dei quali si dilettano in un’attrazione per la cultura che nessuna cura dello Stato attenua. Anche il ristretto gruppo dei consiglieri è composto dal meglio della sapienza e dell’intelligenza: il notaio di fiducia Pier delle Vigne, il filosofo, matematico e astrologo scozzese Michele Scoto, il maestro di diritto civile, Roffredo di Benevento, l’arabo-cristiano Teodoro, il sommo enciclopedista ebreo, Salomon Cohen, due religiosi di grande ingegno, Giacomo Amalfitano e Berardo di Castacca, a significare che l’eccellenza è ricercata anche sotto le vesti talari. Da simile consesso scaturiscono le Costituzioni di Melfi, in onore della località ospitante la variopinta corte imperiale. Mirano a limitare i poteri e i privilegi di nobiltà e clero, addensano il potere nella mani dell’Imperatore affiancato dalla Magna Curia, il consiglio di corte. Per la prima volta viene riconosciuto alle donne la possibilità di ereditare il feudo. Disegnano, insomma, uno Stato moderno, centralista, proteso verso un’ipotetica eguaglianza dei sudditi. Caratteristiche invise a quanti difendono il proprio orticello, dai Comuni ai baroni. Ma il vero, grande avversario resta il Papato. Gregorio e i successori intuiscono che nel progetto unitario di Federico rischia di saltare il loro potere temporale. Di conseguenza hanno un motivo ulteriore per avversarlo, per insinuare una conversione dell’Hohenstaufen all’islam, per accreditare una seconda volta la leggenda dell’Anticristo (non a caso il quasi coevo Dante lo posizionerà nel girone degli eretici), per collocarlo fra i segreti sostenitori dei Templari e del loro scellerato patto con Bafometto. E su questa strada Federico diventerà il precursore dell’intero pensiero esoterico. L’unico risultato vero di tanto falso bailamme è che la nascita dell’Italia dovrà aspettare sei secoli.
L’effimera bonaccia con il Pontefice consente a Federico di consumare piccole vendette. Ne fanno le spese vescovi francesi e tedeschi dichiaratisi favorevoli alla sua scomunica. Vengono imprigionati nel castello di Melfi, momentaneo epicentro del potere. Accoglie la corte e la tesoreria regia, serve da base per le battute di caccia al falcone e per fastosi ricevimenti. A uno di essi figura fra gl’invitati il marchese di Monferrato: si è fatto accompagnare dalla nipote quindicenne Bianca Lancia. Federico se ne incapriccia subito. A modo suo è un grande amore. Il risultato sono tre figli in tre anni, fra i quali il prediletto Manfredi. Ma è un altro figlio, il primogenito Enrico, a riservare la prima amarezza: da re di Germania si è aggregato ai nemici del padre. La ribellione è immediatamente azzerata. Federico guida le operazioni fino alla cattura di Enrico. La punizione deve servire da esempio: Enrico viene accecato e confinato in un castello pugliese. Il suo posto è assunto sul trono dal fratellastro Corrado.
Al ritorno in Italia l’Imperatore coglie l’occasione di guadagnare meriti nei confronti di Gregorio. Violenti tumulti orchestrati da alcune famiglie patrizie hanno costretto il Papa ad abbandonare l’Urbe. A Viterbo Federico batte i rivoltosi, poi conduce l’esercito in Lombardia. I Comuni hanno rialzato la testa: lo scontro aleggiante da anni, cui Federico si è sempre sottratto, stavolta avviene nelle migliori condizioni: la netta superiorità numerica e qualitativa delle sue schiere produce la facile vittoria di Cortenova (1237). Nelle mani degli imperiali cade perfino il glorioso Carroccio. Ne viene fatto dono al Pontefice. Molte città lombarde compiono atto di sottomissione. Anche Milano si presta, ma le condizioni di pace non sono accettate da Federico. Forse stordito dai troppi successi, insegue una generale sottomissione di tutti coloro che nella Penisola non accettano la sua supremazia. A Milano in rivolta si unisce Brescia e sullo sfondo si agita Gregorio in lotta per non perdere la Sardegna promessa da Adelasia di Torres prima di sposare Enzo, un altro figlio di Federico. Il padre l’ha subito proclamato Re dell’isola, il Papa ha cominciato a protestare. Intanto Brescia resiste all’assedio dell’Hohenstaufen, che si dimostra degno nipote di suo nonno copiandone l’atroce espediente di legare i prigionieri bresciani alle torri d’assalto. I concittadini devono ammazzarli per non soccombere, tuttavia si vendicano trucidando sugli spalti decine di ostaggi tedeschi. L’ostinazione dei lombardi prevale: le truppe imperiali esauste e prive di viveri si ritirano. L’intero Settentrione torna a ribollire. Gregorio incita alla ribellione pure Genova e Venezia, messe al sicuro dalla posizione geografica. Federico stavolta non ha eserciti da inviare, si accontenta di metterli al bando.
La vera disputa naturalmente è con il Pontefice. L’Imperatore foraggia una congiura curiale, Gregorio però la sventa e gl’infligge la seconda scomunica. Si scatena il consueto show mediatico, ovviamente con gli strumenti dell’epoca: bolle e comunicati per dirsi di tutto e di più. Ma dietro le accuse imperiali di calunnia, falso, avarizia e la replica papale, che accosta Federico a un feroce animale con artigli di orso, gola di leone, corpo di pantera, vomitatore di bestemmie, galleggia l’insanabile disaccordo fra chi opera per unificare l’Italia - qualunque sia il motivo - e chi, invece, desidera mantenerla divisa. L’ira del sovrano si abbatte sui rappresentanti del clero restii a pronunciarsi per l’Impero: l’abbazia di Montecassino viene secolarizzata, i beni della Chiesa incamerati, l’ordine dei frati mendicanti espulso, lo Stato pontificio invaso. Il governo del Papa traballa. Da ambo i lati scorrono fiumi di monete d’oro per accaparrarsi il favore dei principali casati. Il popolino non apprezza la promessa di Federico di trasformare il Lazio in un altro regno di Sicilia, si accontenta del piccolo cabotaggio giornaliero all’ombra di un potere accomodante. Basta, quindi, una solenne processione con il vegliardo Gregorio in testa per commuovere i più e indurli ad afferrare le armi contro l’invasore. L’Imperatore ritorna in Puglia. Si stabilisce una tregua. Il Papa la rompe allorché riceve rinforzi e denaro. Il suo negoziatore, il cardinale Colonna, disgustato dal voltafaccia, passa con Federico. Ma i rapporti di forza si sono invertiti. Gregorio annuncia un Concilio per scomunicare di nuovo l’irriducibile nemico. Questi fa recapitare a un gran numero di porporati stranieri una rabbrividente descrizione di Roma: ‹‹E’ in preda alla violenza e al caos, i preti si scannano, le chiese sono diventate bordelli. L’aria è fetida, il caldo insopportabile, l’acqua schifosa, il cibo pestifero. Le strade brulicano di scorpioni e di altri abominevoli animali. Gli abitanti sono cenciosi e puzzolenti, malvagi e facinorosi. Tenetevi lontani da questa città››.
In pochi obbediscono al suggerimento-ordine. I più raggiungono Genova. Le navi della Repubblica s’incaricano di trasferirli a Civitavecchia. Allo scoglio della Meloria, dirimpetto a Livorno, la flotta guidata da Enzo assalta il convoglio (3 maggio 1241). Il nerbo è costituito dalle galee di Pisa, avvicinatasi agli imperiali in odio a Genova, che le ha sottratto il Tirreno. Un esempio classico di che cos’è e di che cosa sarà L’Italia. I cardinali sono catturati, incatenati, condotti a Napoli e imprigionati. Il Concistoro lo definisce un ‹‹empio attentato››, Federico ritenta la conquista di Roma. Alle porte della città apprende della dipartita del centenario Gregorio: allora dichiara che per lui la disputa è conclusa niente avendo da recriminare nei confronti del Papato come istituzione. Per meglio evidenziare il proprio distacco dall’imminente conclave, si abbandona agli agi e alle dolcezze di Palermo. L’aspetta l’ennesima nidiata di figli avuti dall’ultima moglie, Isabella d’Inghilterra. In tale atmosfera di rilassatezza matura il suo intervento culturale più famoso: le Questioni Siciliane, cioè i cinque quesiti posti ai dotti e sapienti sulle primarie questioni filosofiche del tempo. Noi le conosciamo grazie al libriccino di Ibn Sab’in, prezioso strumento per addentrarci pure nella filosofia islamica. I quesiti posti da Federico riguardano l’argomentazione di Aristotele a favore dell’eternità dell’Universo; i presupposti della teologia per gli antichi greci e per i sufi; le categorie aristoteliche; l’immortalità dell’anima; l’interpretazione di un famoso detto di Maometto. <>.
Chi non ha modo e voglia di rispondere è il nuovo Papa, Celestino IV, il milanese Goffredo Castiglioni. E’quasi coetaneo di Gregorio e dura un paio di settimane. Divisi sul successore, i cardinali abbandonano Roma, che cade in preda all’anarchia e all’atterrimento che le truppe imperiali, acquartierate nei dintorni, possano approfittare del vuoto di comando. Viceversa Federico tentenna. Magari è la stanchezza, magari l’età, magari il timore che la scomunica pendentegli di sopra possa ricompattare il fronte avverso: in ogni caso privilegia la soluzione diplomatica, anziché quella militare. S’adopera con le eminenze affinché giungano a una soluzione, con il sottinteso che dev’essere gradita a lui. Il prescelto è Sinibaldo Fieschi, Innocenzo IV. E’ un antico conoscente dell’Hohenstaufen, spesso ha partecipato alle dispute giuridiche fra la Chiesa e l’Impero: i suoi primi atti sono di apertura. Anch’egli spinge per la soluzione di un conflitto, che da quasi trent’anni devasta il Paese e i rapporti tra le due massime Potenze. La bozza d’intesa prevede la cancellazione della scomunica in cambio della restituzione dei beni e dei territori accaparrati da Federico. Un solo punto da definire: il destino dei comuni lombardi.
Le possibilità di pace vengono frustrate dall’improvvisa insurrezione della guelfa Viterbo. La reazione di Federico è immediata, forse financo sproporzionata all’importanza della cittadina, la quale nel confronto s’imbaldanzisce e regge bene l’urto degli aggressori. La resistenza di Viterbo ringalluzzisce gli avversari dell’Impero. Innocenzo alza il prezzo dell’accordo. Il nocciolo rimane la Lombardia: non accetta che ricada sotto il dominio imperiale. Ovviamente più dell’indipendenza di Milano e delle altre città gli sta a cuore di non ritrovarsi accerchiato dall’unico sovrano del Paese. Federico respinge le proposte, il Papa si rifugia nella natia Genova, da qui raggiunge Lione e convoca un Concilio (28 giugno 1245) con il dichiarato decaduto l’Imperatore, di sciogliere sudditi e vassalli dall’obbligo di fedeltà. In teoria Lione appartiene alla Borgogna, di cui Federico è formalmente il monarca, ma la città è sotto la protezione del re di Francia. Neppure un fumantino e lesto di mano come l’Hohenstaufen può pensare di marciare oltr’Alpi.
Innocenzo alza il livello dello scontro: afferma che l’autorità del Papa supera quella dell’Imperatore, avverte i principi di proteggersi dalle mire egemoniche del monarca. Il quale si è rivolto agli stessi principi per incitarli a ‹‹difendere le corone dagli artigli rapaci della Chiesa››. La contrapposizione ormai è totale. Innocenzo si dà a cercare un successore di Federico, sonda diversi candidati in pectore. Diversi s’interrogano sul suo comportamento: lo ritengono troppo interessato al proprio particolare, mentre ai confini dell’Europa vengono annunciati i mongoli. Sono mesi di confusione e di sangue. Ci si scanna in ogni luogo, gli eccessi risultano la norma. A distinguersi è un genero di Federico, Ezzelino da Romano, profeta di una violenza senza fine.
In Germania gli Elettori designano re il margravio di Turingia, Enrico Raspe, che il 5 agosto 1246 sconfigge Corrado. Federico capisce che soltanto la pace può salvare i suoi troni, ma Innocenzo sa di essere oramai il più forte: respinge ogni profferta. Tafferugli e rivolte si verificano anche nel Regno di Sicilia. Federico è costretto a correre qua e là per parare i colpi, però non ha gli eserciti necessari e soprattutto non ha lo spirito per affrontare e domare le avversità. Nel 1248 dinanzi a Parma subisce lo smacco definitivo. Dopo mesi di assedio le sue truppe si fanno cogliere alla sprovvista da una sortita disperata degli assediati. Vengono massacrate. Per la prima volta l’Imperatore è a corto di effettivi. L’anno seguente a Fossalta le schiere imperiali unite a quelle ghibelline di Modena e Cremona sono bastonate dai guelfi di Bologna. Enzo, abbonato alle sconfitte, viene imprigionato: rimarrà a Bologna fino alla morte nel 1272. Una carcerazione dorata, lo circondano di servitù e disponibili ragazze, ma sempre carcerazione.
Ammalato, ossessionato da ogni possibile voltafaccia, fiaccato dagli insuccessi politici e dalle sconfitte militari Federico subisce una vistosa trasformazione caratteriale. Il sovrano definito da Montanelli il Re Sole del Duecento assume l’aspetto e i modi di un ringhioso introverso. L’ultimo dispiacere è probabilmente figlio delle sue fobie: accusa di tradimento il più fidato dei consiglieri, Pier delle Vigne. Anche per lui ci sono l’accecamento e la conseguente prigionia, cui il notaio sfugge con il suicidio. Attorno all’anziano Imperatore - ma alla sua età, 55 anni, il nonno Barbarossa battagliava ancora sui campi - si fa il vuoto. Il progetto statuale è fallito, nonostante la rivincita di Corrado contro il margravio di Turingia (1250); la famiglia e il ’partito’ sono a pezzi. Oltre a Manfredi, gli rimangono accanto in pochissimi. La pretesa della Chiesa di non avere rivali in Europa, in special modo in Italia, ha dato fiato agli egoismi e agli interessi di bottega degli italiani. Ciascuno ha salvaguardato il proprio ’particulare’, ma ha posto, altresì, le basi per secoli e secoli di servaggio. I migliori saranno costretti a girare raminghi il mondo in cerca di una patria.
Una fulminante infezione intestinale colpisce Federico appena rimesso piede in Puglia. Le sue condizioni si aggravano talmente da rendere impossibile il ricovero nel Palatium di Lucera. L’infermo e la corte riparano nella domus di Castel Fiorentino, un borgo fortificato dalle parti dell’odierna Torremaggiore. Un sorriso dev’esser scappato a Federico quando gli rivelano dove sono diretti. Michele Scoto gli ha, infatti, predetto che sarebbe morto sub flore. E’ il motivo per cui l’Hohenstaufen mai si era voluto recare a Firenze. Di Scoto e della sua sapienza astrologica ha sempre coltivato il massimo rispetto, ancor più delle altre sue doti di matematico e filosofo. D’altronde Scoto ha azzeccato in pieno anche la propria di morte: a causa di un sasso in testa. Aveva assunto la precauzione di girare con un elmo di ferro, ma neppure esso ha potuto ripararlo dall’enorme tegola cadutagli sopra.
Federico, pertanto, decide di arrendersi alla Nera Signora, benché si sia parlato di un misterioso veleno - nei mesi precedenti era stato scoperto un complotto comprendente lo stesso medico di corte - e della mano omicida di Manfredi, voglioso di succedergli sul trono di Palermo. Lo Stupor mundi si congeda nella maniera più paradossale possibile, primo di quei siciliani cultori dell’Eterno Paradosso, che nell’isola ha prodotto risultati così eclatanti da rasentare l’assurdo. Indossa la tonaca cistercense, si confessa con l’arcivescovo di Palermo, Berardo, appositamente convocato, detta in volgare il testamento alla presenza dei notabili dell’Impero, e spira in grazia del suo Dio (17 dicembre 1250).
[continua...]





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