- Primo capitolo -   

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8 Settembre - La festa è finita

Il sottotenente Giuseppe Scagno si desta prima della sveglia fissata alle 5. Mette le gambe giù dalla brandina e resta a mezzo inseguendo i rumori della notte che diventa alba. L’intero accampamento é in subbuglio. L’ordine é di esser pronti alle 5.30. I soldati partono con il magone. Dove lo troveranno un altro campo così? Nella valutazione dei veterani, di quelli che si sono fatti tutti i fronti - Francia, Albania, Grecia, Jugoslavia -, é equiparato a un albergo a cinque stelle. Le tende sono protette dai canaletti di scolo e isolate dal terreno attraverso un complesso graticcio di canne, gli orti sono venuti su da far morire d’ invidia persino i contadini della zona, il panorama spazia verso la piana di Valsamata con sullo sfondo gli alti costoni del Megalo Vuno (la grande montagna) buoni per bloccare i venti freddi del nord-est. E poi sono abbastanza distanti da Argostoli per evitare le grane del quartier generale, ma abbastanza vicini per le sere in cui prende la voglia di un pò di passatempo. Insomma la migliore delle sistemazioni possibili, che all’improvviso dev’essere abbandonata per spostarsi più a nord, in una zona d’alta quota, sospesi tra terra e cielo: nel gergo dei fanti significa stare fra l’umido della terra e le intemperie del cielo. Scagno e il resto della compagnia comando del 317° regimento si trasferiscono a Makryotica, quasi mille metri d’altitudine. Vanno a sostituire le camicie nere della Legione LEONESSA rimandate a casa. A fine agosto Scagno li ha visti passare sugli autocarri: sempre spocchiosi, ma quasi per farsi coraggio, per convincersi l’un l’altro di essere ancora lo spauracchio dei bravi borghesi. L’espressione da impuniti esibita per vent’anni l’avevano però persa. Al posto delle rituali camicie nere indossavano quelle grigioverde dell’esercito, sul bavero le stellette avevano sostituito i "fasci littori". Sono salpati il giorno prima diretti verso un’Italia che ha chiuso con il fascismo...Ce ne sarebbe di che sbizzarrirsi sul MARC’AURELIO con una delle sue vignette firmate Gep. Il disegno e la satira sono la vita di Scagno, come il MARC’AURELIO é il suo giornale. Li riavrà alla fine della guerra. Questa stupida guerra é solo un intermezzo, un debito da pagare alla vita, gli aveva detto suo zio il giorno della partenza. Eppure tutte le volte che ha provato a mettere giù uno schizzo per cominciare a raccontarla, s’é dovuto fermare. Non gli riesce di scherzare sui combattimenti, sulla morte, sulle sofferenze che ha conosciuti. No, la guerra non lo diverte. E ha imparato che, se una vignetta non diverte lui, non diverte neppure i lettori.

Il capitano Guglielmo Pantano osserva l’alba al bivio di Kardakata. Gli piacciono quei colori purissimmi nell’aria ancora fresca. Gli piacciono un pò meno i tedeschi che trafficano a valle. Che tra l’altro, in buona parte, non sono tedeschi, bensì austriaci, molti dei quali aruolatisi per sfuggire al carcere. Gli scherzi del destino, pensa Pantano. Come se non fossero bastati gli austriaci in cui si é imbattuto negli anni di Merano. Lo trattavano da meridionale, cioé di razza inferiore, perché suo padre era campano e non contava che sua madre fosse di chiare ascendenze asburgiche, Roth il cognome. Già, sua madre...Il capitano pensa alle lettere che gli scrive da Merano e si addolcisce. L’adora. Tutto le piace di lei. Per suo amore ha imparato perfino il tedesco. Lo parla alla perfezione, ma detesta tutti gli altri che lo parlano, soprattutto se sono altoatesini. Pantano li ricorda prontissimi a sputare nel piatto in cui mangiavano. Per lui erano rimasti austriaci, cioé nemici. E se fosse dipeso da lui, avrebbe dichiarato guerra all’Austria, cioé alla Germania che se l’era annessa. Pantano punta il binocolo sulla penisola di Paliki, sugli attendamenti del 966° reggimento da fortezza della Wehrmacht. Sbarcati nell’isola all’inizio di agosto, i granatieri appaiono allegri e cerimoniosi. Ufficialmente sono venuti per irrobustire la difesa di una posizione considerata strategica nel Mediterraneo, ma Pantano sa, al pari di tutti i soldati della sua compagnia (la 11a del 317°), al pari di tutti gli itaiani di Cefalonia, che i crucchi stanno lì per spiare le loro mosse, per vedere se davero hanno intenzione di continuare la guerra oppure di filarsela appena possibile.

Il capitano Achille Olivieri apre gli occhi e se ne pente subito: non esiste un muscolo che non glli faccia male. Dopo tanti messi trascorsi assieme a compassi e grandangoli l’hanno rispedito sul campo e il suo fisico protesta. E’ stato Gandin in persona, il comandante della divisione ACQUI, a chiedergli di rifare il carrista: non aveva servito da ufficiale nel 232° battaglione della Brennero? E allora chi meglio di lui per formare e istruire un reparto anticarro? Olivieri si é di nuovo trovato tra cingoli, mine, granate, bottiglie vuote da lanciare immaginando che ciascuna di esse sia un’inutile molotov. Sono folcloristiche o poco più, come quasi tutto l’armamentario di quel povero esercito di straccioni che non ha mai avuto l’occorrente per vincere. Olivieri l’ha imparato in Africa, dove fino a pochi mesi prima si era occupato di mappe e di carte segnaletiche. L’identico compito per cui é stato spedito a Cefalonia: forse per questo gli hanno conservato la divisa coloniale che portava nel deserto. In un clima torrido, assai simile a quello africano, Olivieri ha sudato in ogni senso per dare un minimo di efficienza al gruppo affidatogli. Capisce la renitenza dei soldati: intuiscono che la guerra é finita, che la resa agli angloamericani é inevitabile, che ogni sforzo é ormai superfluo. Si sono allenati con un semovente prestato dai tedeschi: i camerati hanno collaborato, prodighi di consigli e di pazienza. E’ anche merito loro se l’esercitazione al cospetto del generale Marghinotti, comandante dell’VIII corpo d’armata, ha fruttato elogi e promesse di ricompense. Olivieri, però, si augura che dalla teoria non si debba passare alla pratica: sarebbe tutta un’altra musica.

L’attendente Gigi Cuni balza in piedi prima che il gallo della vicina masseria lanci il suo chicchirichì. La corvée da attendente é lunga e laboriosa, Cuni però si reputa fortunato ad avere trovato un ufficiale come il maggiore Pica. Il maggiore lo tratta con affetto e dimestichezza, ha poche esigenze e non si dà arie. La principale fatica consiste nel tenergli dietro durante i frequenti spostamenti da Chelmata a Lardigò, alla penisola di Paliki. Pica va e viene per controllare i due gruppi di artiglieria che dipendono da lui, Cuni cerca di stargli al passo, di anticiparne i desideri e i bisogni. Nelle lettere a casa, ha scritto che il signor maggiore é un uomo buono: il miglior complimento che potesse rivolgere nel suo linguaggio di ragazzo schietto , ma introverso, cresciuto nelle montagne sopra Bergamo e insofferente del caldo di Cefalonia.

A Chavriata il sottotenente Giampiero Matteri si sposta da un cannone all’altro della batteria (la 2a de 100/17) per osservare i due lati dell’isola e quel mare uniforme che i talune albe gli fa venire in mente il suo lago a Dongo. Chissà che cosa succede a casa. Dopo il 25 luglio é inquieto per il padre, che di Dongo é stato il federale. Lo giudica una brava persona, immagina che i concittadini gli vogliano bene, ma adesso che é caduto il fascismo, che Mussolini é agli arresti, che ne sarà dei fascisti? E se é vero che a Roma pensano alla resa, che ne sarà di loro? Soprattutto di loro - 2a batteria del 33° reggimento artiglieria - conficcati come una spina nella zona controllata dai tedeschi? Matteri ha ventidue anni e sta a Cefalonia da un anno e mezzo. Lui e il suo amico e coetaneo Giancarlo Trivellin vi sono giunti nel marzo del ’42 freschi di nomina, dopo un sorteggio effettuato a Merano alla fine del corso allievi ufficiali. Servivano due sottotenenti per il 33° reggimento di stanza a Cefalonia e la sorte aveva indicato entrambi. Erano partiti fiduciosi, un viaggio lunghissio attraverso la Jugoslavia, l’Albania, la Grecia. Ovunque un senso di provvisorio, la continua difficoltà di tirare avanti. Già a Merano avevano colto i segnali di una situazione che volgeva al peggio: essendosi rifuitati di far adattare la divisa da solato semplice, avevano dovuto pagare di tasca propria per avere quella da ufficiale. E non era finita. Presentatisi in fureria avevano ricevuto una pistola giocattolo: le Beretta 7,65 non erano al momento disponibili, quindi che si accontentassero, l’importante - aveva detto il furiere - era di non girare per le vie di Merano con la fondina floscia. Matteri e Trivellin avevano aspettato qualche giorno, poi si erano rassegnati a comprare la Beretta.

Appoggiato allo stipite della finestra il capitano Amedeo Arpaia dapprima guarda la palazzina dove comincerà la giornata, poi guarda la casa bassa dove spera di concluderla. Nella palazzina ha sede il comando del 3° gruppo contraerea da 75/27, da cui dipende la sua batteria, la 2a; nella casa bassa vivono le cose belle che la vita gli riserverà a guerra finita, appena lui tornerà a Napoli. Arpaia discende da un prestigioso casato, é un ingeniere appassionato di letture pensose, tuttavia essendo napoletano crede nella forza del destino: se dopo tanto girovagare - Francia, Albania, Grecia - era approdato a Cefalonia ed era venuto ad abitare in quell’appartamento piuttosto che in un’altro, un motivo doveva pur sussistere. L’ha individuato la sera in cui Gnonos, la mascotte della batteria nonché figlio della famiglia che l’ospita, gli ha mormorato all’orecchio: "Signor capitano, quella ragazza che tu fissi da una settimana si chiama Dimitra, fa l’insegnante, sta nella casa dirimpetto alla nostra... Te la presento?" Gnonos é stato di parola e Arpaia sin dal primo istante si é perso negli occhi di Dimitra. Il loro amore ha galoppato bruciando i giorni, superando lo scietticismo dei futuri suoceri, zittendo le facili battute sulle passioni travolgenti che nell’isola si consumano in poche ore. Anche Dimitra ha perso la testa per quell’ufficiale gentiluomo, che dietro la giovalità nasconde una classe naturale. Il fidanzamento é stato annunciato con una festa, le nozze si celebreranno nella più bella chiesa di Napoli, descritta e disegnata dal capitano in ogni particolare. Il più felice di tutti é Gnonos: può entrare quando vuole nella pasticceria sul viale, dopo il negozio delle pompe funebri, e chiedere il cartoccio di quattro paste, due al miele, due alla crema.

Quel mercoledì il sole sorge a Cefalonia su undicimilasettecento italiani che muoiono dalla voglia di andar via e su ottantamila isolani, discendenti dell’antico re Kefalos, che muoiono dalla voglia di vederli andar via. Occupanti e occupati convivono da due oltre anni senza inimicizia e con qualche confidenza. Da quando vi sono approdati ufficiali e soldati hanno annusato l’intenso profumo di timo e l’aria di casa: mentalità, abitudini, vegetazione, utensili, espressioni gergali rimandano ai paesi della Sicilia o del Triveneto. Diversi sono i colori: risaltano il giallo ocra dei muri, ricavato da una cava di Lixuri, e il verde delle persiane. Per paura del terremoto le abitazioni sono basse, massimo due piani, e i cefalleni trascorrono parecchie ore al balcone: da qui intrecciano fitte discussioni con i militari che passano per strada. Sono nate relazioni di ogni tipo - sentimentale, sessuale, d’interesse, d’opportunismo -, si sono stabiliti rapporti di cordialità. Nei salotti borghesi arredati con gusto mediterraneo vengono ricevuti glli ufficiali, si bevono il rosolio locale, l’ouzo dal sapore di anice, e il cognac portato dagli ospiti, ma entrambe le parti sanno che l’avventura fascista nelle isole ioniche é finita. Com’é finito il fascismo il 25 luglio e come dovrà finire la guerra. Ma da Roma tutto tace e le rare copie in carta velina del CORRIERE DELLA SERA, che giungono a singhiozzo con gli idrovolanti, riportano continue dichiarazioni sull’indomita volontà del Paese di continuare la lotta al fianco dell’alleato germanico. Che la guerra prosegue, a dispetto dei desideri e della stanchezza, é confermato dall’irrigidimento della disciplina. Le licenze e la libera uscita sono state ridotte in maniera drastica, i turni di lavoro hanno assunto ritmi massacranti. Alla guarnigione fin lì adagiata in un comodissimo tran tran é stato ordinato di riscoprire le virtù guerriere. La formazione e l’addestramento del reparto anticarro affidato al capitano Olivieri sono un esempio dell’improvviso attivismo dilagante nell’isola da metà agosto. L’invasione della Sicilia fa temere che il prossimo obiettivo possano essere Corfù e soprattutto Cefalonia, di conseguenza il Comando Supremo raccomanda lo stato di massima allerta. Nessuno però crede all’ipotesi di una resistenza a oltranza e soprattutto nessuno ha voglia di farla.


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