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All’inseguimento del destino


Il viaggio da Torino a Verona su un automezzo dell’esercito repubblichino con la scorta e con l’angoscia di un attacco delle bande patriottiche (l’aggettivo partigiani si diffonderà dopo la guerra). La sosta al quartier generale delle forze armate repubblichine a Desenzano; la fugace visione del maresciallo Graziani e di alti ufficiali con i nastrini delle decorazioni bellamente esposti sul petto. Il treno della sera da Verona; l’attraversamento di Monaco e Lipsia già semidistrutte e sotto bombardamento aereo; l’arrivo, nel tardo pomeriggio del 29 maggio ’44, alla stazione di Berlino. Nel cuore e nella mente l’appagante certezza di essere dalla parte dell’Italia e dell’unico uomo che poteva difenderla, Mussolini. Mai incontrato, mai visto, ma guai se non ci fosse stato.
All’improvviso corrono in fretta i giorni di Lorenzo Morera, chiamato Renzo, 17 anni appena compiuti, il 7 maggio. Ha lasciato il natio Piemonte per stare vicino al padre, il colonnello Umberto comandante della missione militare a Berlino. L’accompagnano la mamma Giuseppina e il fratello Adalberto, 10 anni, destinati a raggiungere la residenza a un centinaio di chilometri a sud ovest di Berlino, predisposta per i parenti dei diplomatici stranieri. Ancora un anno prima Renzo sognava un futuro da marinaio: la divisa blu, con corona regia sul berretto e stellette sul bavero, da cadetto della Regia Accademia di Livorno. Adesso aspetta con ansia che venga accolta la sua domanda di entrare da volontario nella X Mas del comandante Junio Valerio Borghese.

Proveniente da Casale Monferrato, la famiglia Morera è di solide tradizioni monarchiche e cattoliche: Fede e Patria, Spada e Croce. I genitori, i nonni, gli zii di Renzo hanno attraversato il fascismo fiduciosi che il re avrebbe in ogni caso provveduto. Papà Umberto, nato nel 1893, il più giovane di sei fratelli e sorelle, è stato l’emblema di questo attaccamento condito da una dichiarata simpatia per Mussolini. A cambiare il suo destino borghese è stata la grande guerra: da riserva della Juve e studente dell’Ecole speciale des Travaux Publics di Parigi ad aspirante ufficiale di complemento del genio. Il 24 agosto del ’17 ha piantato il tricolore sul Monte Santo nei pressi di Gorizia: medaglia d’argento sul campo. Alla quale sono seguite altre tre decorazioni. Le stesse, che durante una licenza a Casale, hanno scatenato l’aggressione di un gruppo di esagitati con bandiera rossa e inneggiante a Lenin.
La conoscenza di quattro lingue (inglese, francese, tedesco e russo) è diventata per il giovane capitano il lasciapassare di molteplici missioni internazionali: ce n’è stata persino una nella neonata Unione Sovietica per conto dello spionaggio italiano. Nel ’26, con il matrimonio e la susseguente nascita di Renzino, Morera ha servito in diversi reggimenti del genio fino al trasferimento a Torino (1934). Due anni più tardi si è rifiutato di far parte del presunto corpo volontari inviato dal regime in Spagna per sostenere il golpe del generale Franco contro il Fronte Popolare vincitore alle elezioni. A parte alcuni battaglioni di camicie nere, si trattava di reparti dell’esercito camuffati: agli ufficiali di carriera era proibito usare il proprio nome, ma Morera non ha voluto saperne di combattere ed eventualmente crepare con una falsa identità.
Malgrado la conquista d’Etiopia e la proclamazione dell’Impero, si è allargato lo scetticismo nei confronti della politica militare perseguita dal governo. Per Morera lo spauracchio era già chiaro: un’eventuale guerra contro gl’inglesi, per di più al fianco dei tedeschi: «Finiremmo per essere disprezzati dai primi e schiacciati dai secondi». L’emanazione delle leggi razziali ha rappresentato una ferita personale: un suo grande amico e collega ebreo, valoroso combattente nella prima guerra mondiale, è stato obbligato al congedo. Anche il resto della grande famiglia si è ritrovato sulle posizioni di zio Nino, uno dei fratelli, che da ex ufficiale di marina, ha sempre manifestato un atteggiamento antifascista e filo britannico nel senso di predire disgrazie, se avessimo dichiarato guerra agli inglesi. Zio Nino ha accusato il fascismo di autolesionismo, di apparentamento alle «barbariche, inquietanti spire del nazionalsocialismo razzista».
La persecuzione degli ebrei ha comportato la rinuncia a tanta intelligenza, specialmente in campo scientifico. La partenza per gli Usa del trentasettenne Enrico Fermi, appena insignito del Nobel per la Fisica, è suonata quale triste conferma. L’Italia ha perso il padre della fissione nucleare, le cui intuizioni saranno alla base dell’atomica statunitense nel ’45. Mentore del gruppo di genietti all’opera nel laboratorio di via Panisperna a Roma, Fermi se n’è andato per salvaguardare la moglie Giulia, ebrea, e i due figli, che dalla legge sono considerati ebrei anch’essi.
Il patto di Monaco (fine settembre ’38) ha regalato a Mussolini l’ultima grande fiammata di consenso popolare. Quasi a sua insaputa, il duce – appellativo datogli dai socialisti forlivesi appena fu nominato direttore dell’ Avanti nel ’12 – si è trovato a mediare tra le pulsioni belliche di Hitler e la larvata opposizione di Chamberlain, primo ministro della Gran Bretagna, e di Daladier, primo ministro della Francia. Lo sconcio smembramento della Cecoslovacchia ha consentito di raggiungere quella che è stata spacciata per la «pace nel nostro tempo». Invece avrebbe avuto ragione Churchill: «Potevano scegliere tra il disonore e la guerra, hanno scelto il disonore e avranno la guerra». Si è festeggiato pure a casa Morera: l’accordo tra le quattro potenze è parso allontanare la partenza del maggiore Umberto per il fronte. Tuttavia, si avvertiva che la situazione fosse in precario equilibrio, che Mussolini non avesse compreso la corale domanda di pace rivoltagli dal Paese.
Il Patto d’acciaio Roma-Berlino presto allargato a Tokio ha indotto zio Nino a sentenziare: «Siamo finiti». L’intesa siglata dalla Germania e dall’Urss l’estate successiva ha avvalorato la profezia. Renzo ha appreso dal padre che quell’accordo firmato dalle due feroci dittature, fino al giorno prima su sponde differenti, annunciava l’attacco tedesco alla Polonia, il probabile intervento in sua difesa dell’Inghilterra e della Francia. In una parola, la guerra. Il nonno, vecchio liberale antifascista, ha commentato: «I bolscevichi hanno cagato sull’Asse costruito dai fascisti e dai nazisti». Il 1° settembre ’39 la Wermacht ha invaso la Polonia: Inghilterra e Francia si sono schierate al suo fianco. La dichiarazione di «non belligeranza» dell’Italia ha rinsaldato la fiducia di Morera nella saggezza di Mussolini. Il maggiore ha spiegato alla famiglia in vacanza a Ormea che il non intervento era obbligatorio, figlio della totale impreparazione dell’esercito per di più prosciugato dai quattro anni di combattimenti in Etiopia e in Spagna. Con l’aggiunta che il carattere e la scarsa capacità di tanti generali e di tanti ministri lo lasciavano scettico. A dir poco, i militari italiani non avevano la tempra dei loro parigrado britannici.
Il trionfale blitz delle divisioni corazzate germaniche nel cuore d’Europa, l’aggiramento della sopravvalutata linea Maginot, lo sbriciolamento delle forze armate francesi hanno abbattuto le radicate certezze dei vertici del regio esercito. Per motivi misteriosi ritenevano imbattibile quello transalpino: la sua dissoluzione ha significato che la macchina da guerra allestita dall’alto comando germanico non aveva pari nel mondo. Morera è stato inserito nella missione del generale Rovere incaricata di seguire la progressione dei carri armati tedeschi. E’ giunto sulla spiaggia di Dunkerque che ancora bruciavano gli avanzi del corpo di spedizione inglese. Ha raccolto un piccolo crocifisso in legno, che nel ’44 donerà a Renzo per festeggiarne l’arruolamento e che Renzo consegnerà, dopo oltre mezzo secolo, a una delegazione di reduci inglesi.
Il 10 giugno ’40 Mussolini ha dichiarato guerra senza neppure attendere il rientro a Roma della missione militare e il rapporto conclusivo. Nella sua totale miopia l’aspirante borghesuccio di Predappio si è convinto che la Gran Bretagna avrebbe chiesto la pace entro Natale. Il 2 giugno al generale Badoglio, l’incapace messo purtroppo al comando delle nostre forze armate, aveva detto: «Ho bisogno di un migliaio di morti per sedere al tavolo della pace». E’ la frase più bieca del XX secolo, quella che cattivi patentati dello spessore di Hitler, Stalin, Mao, Pol Pot hanno sicuramente pensato, ma mai pronunciato. L’ha fatto il duce nella presunzione di poter lucrare, con il suo sanguinario bluff, ricchi dividendi. A disastro compiuto, i suoi sostenitori affermeranno che a spingerlo fosse stato pure il desiderio di contenere lo strapotere della Germania nell’Europa a essa asservita. Nell’ottobre del ’43, nel discorso agli ufficiali, il Badoglio già teso a rifarsi una simil verginità sosterrà di aver gridato in faccia a Mussolini: « Ma lei lo sa che noi non abbiamo nemmeno le camicie per i nostri soldati, non dico le divise, ma nemmeno le camicie». Avendo saggiato la sua tempra da Caporetto in avanti, c’è da dubitarne. Oppure il coniglio per una volta s’era agghindato da leone?

Il giudizio di Morera sulla guerra è stato perentorio: o la chiudiamo entro l’estate o l’abbiamo persa. Acceso dal fervore patriottico, molto coltivato nel ginnasio liceo Massimo D’Azeglio, Renzo c’è rimasto male. Nella cerchia dei parenti il più ottimista si è paradossalmente manifestato il nonno. Zio Nino ha scandito la sua funerea profezia: «Il Paese si è imbarcato in una guerra che non vincerà. L’inglese è un popolo che mai si arrenderà». In ottobre gli esiti catastrofici della scombinata invasione della Grecia hanno confermato tutti i dubbi sulla tenuta delle nostre divisioni e soprattutto sull’abilità di chi le comandava.
La mancata conquista di Gibilterra ha comportato lo spostamento di Morera da Genova, dov’era sottocapo di stato maggiore del XV corpo d’armata, ad Atene: è stato nominato direttore militare delle ferrovie e delle miniere greche nonché comandante del XXVI Raggruppamento genio. Alle lettere entusiastiche di Renzo, assegnato a uno squadrone di avanguardisti a cavallo, il padre ha risposto con eguale affetto, ma senza condividere l’ottimismo sull’andamento del conflitto. Un ottimismo per altro poggiato sulla fede più che sui risultati: sono già state perse l’Eritrea e l’Etiopia, sull’Amba Alagi si è arreso il duca d’Aosta. Al fianco degli inglesi si sono schierati gli Stati Uniti: è apparso chiaro che non si limiteranno a vendicare Pearl Harbour con il Giappone; prima o poi si affacceranno in Europa e allora saranno dolori.
Il ’42 è stato l’anno della grande illusione, almeno fino all’autunno. In Africa l’offensiva di Rommel ha condotto l’armata italo-tedesca a el Alamein con vista su Alessandria e sul canale di Suez. In Urss il bel tempo della primavera e dell’estate, le strade asciutte hanno permesso ai carri armati germanici di correre verso il Caucaso, i campi di grano, i pozzi petroliferi. Nel Pacifico il Giappone ha tenuto gli Stati Uniti sulla difensiva; in Atlantico i sommergibili italiani e tedeschi hanno affondato carichi imponenti. In agosto il colonnello Morera ha avuto una breve licenza casalinga: per la prima volta ha mostrato fiducia, a Renzo si è aperto il cuore. Poi si è presentato l’autunno e non sono cadute soltanto le foglie. E’ caduta anche una bomba sull’alloggio dei nonni Morera, dove Renzo, la madre e il fratellino si erano trasferiti da oltre un anno. Trasloco obbligatorio nell’abitazione di Bricherasio, dalle parti di Pinerolo. L’abbandono di Torino, del Massimo D’Azeglio ha costituito per Renzo la conseguenza forse più dolorosa di una guerra fin lì vissuta da lontano. Su di essa si sono affastellate le improvvise e numerose cattive notizie provenienti da tutti i fronti: in Egitto la straripante superiorità dell’8a armata di Montgomery ha spezzato il fronte di el Alamein, nonostante i prodigi della Folgore e dell’Ariete; in Unione Sovietica le divisioni dell’Armir sono state travolte sul medio Don dall’inatteso attacco dell’Armata Rossa con gli alpini costretti a opporre il proprio corpo ai blindati sovietici; a Stalingrado sul Volga, dopo tre mesi di una sanguinosissima battaglia maceria per maceria, che però non ha sortito la sperata conquista, la 6a armata del generale Paulus è stata inopinatamente insaccata; in Marocco e in Algeria è sbarcato il corpo di spedizione americano.
A ridosso delle Alpi la vita è scorsa all’apparenza senza sussulti, gli stessi rovesci militari sono stati assorbiti nella speranza che niente sarebbe cambiato. Invece una sottile angoscia del futuro si è insinuata nelle chiacchiere, nei comportamenti. E ogni notte a rincrudelirla ha provveduto il sordo rombo delle formazioni aeree alleate dirette a bombardare Torino, Genova, Milano, linee ferrate e treni, porti e depositi. Nell’estate del ’43 l’invasione della Sicilia, il mitico bagnasciuga violato, malgrado la garanzia di Mussolini, il dissolversi delle difese italiane hanno portato il nemico in casa e scatenato il pessimismo.
Il 26 luglio una piccola folla sul piazzale della chiesa di Bricherasio ha accolto con gioia la notizia che il re avesse deposto Mussolini e incaricato Badoglio di guidare il governo. D’incanto dagli occhielli delle giacche sono spariti i distintivi del Partito nazionale fascista (Pnf). Renzo ha tolto il suo della Lega Navale, di cui andava molto fiero, perché vi era sovrapposto un fascio littorio: la giovanile devozione per Mussolini è stata cancellata dalla scelta di Vittorio Emanuele III. Nelle visceri del vecchio Piemonte sabaudo l’adesione al sovrano è rimasta inossidabile. Per i Morera la designazione a capo del governo del più titolato maresciallo del Regno, Badoglio, è stata giudicata in linea con la fase delicata della guerra, bisognevole – nel loro giudizio – della guida di un vero professionista.
La sospirata pace non è arrivata, anzi Badoglio ha proclamato che la guerra sarebbe continuata. La Sicilia è stata persa. Le aspettative deluse di parecchi hanno prodotto manifestazioni, scontri, morti: in quaranta giorni di presunta, ritrovata libertà le vittime sono state più numerose di quelle prodotte in vent’anni dal tribunale speciale fascista. La stupefacente sparizione di ogni sostenitore di Mussolini, punteggiata da clamorosi voltafaccia, è stata seguita dall’annuncio dell’armistizio: nel giudizio degli inguaribili ottimisti avrebbe dovuto trasformarci da vinti in vincitori. Al contrario, quella firma apposta sotto la tenda di Cassibile ha rappresentato l’inizio dei tormenti, della guerra civile, della lotta fratricida inferocita dalla sicurezza, su entrambe le trincee, di rappresentare la vera Patria. Patrioti si definiranno gli uomini delle montagne, patrioti si definiranno gli uomini di Salò. E per quanto ci avrebbero pensato la cronaca e la Storia a dividere torti e ragioni, gli sconfitti non hanno cambiato idea.
D’altronde lo stesso Eisenhower, comandante in capo delle forze alleate in Europa, avrebbe definito l’armistizio un affare disonesto e illegale. Nelle sue memorie trapelano le pressioni della Gran Bretagna – il grande nemico dell’Italia in tutto il Novecento – per umiliarci; la preferenza accordata alla Francia, che in cinque anni era passata da Paese sconfitto e collaboratore del nazismo attraverso il governo di Vichy a Paese vincitore e degno di essere uno dei cinque membri del Consiglio di Sicurezza Permanente dell’Onu.

Sotto lo sguardo allucinato di Renzo la dissoluzione della 4a armata – comandata dal generale Vercellino, il cui nome per anni era stato pronunciato con ammirato rispetto dai Morera – ha simboleggiato la dissoluzione dell’intero esercito abbandonato dai vertici. I vigliacchi d’alto bordo, da Vittorio Emanuele a Badoglio, da Umberto ad Ambrosio hanno avuto l’unica preoccupazione di mettersi in salvo fregandosene dei tanti poveracci mandati prima a combattere e in seguito lasciati senza ordini chiari. In ritirata dalla Francia i soldati della 4a armata hanno abbandonato cavalli, muli, bici, moto, viveri, vestiario, armi; sono diventati facile preda dei tedeschi: bastava una pattuglia per imprigionare una compagnia, addirittura un battaglione. I generali sono fuggiti sulle auto con le tendine abbassate. Qualcuno ha avuto il pudore di togliere dalle macchine di rappresentanza le bandierine con le stellette indicanti il grado. In una è transitato il generale Operti, il sovrintendente della 4a: nel baule portava la cassa dell’armata con dentro una cinquantina di milioni di lire (circa 17 milioni di euro). Avrebbe cercato di barattarli con il comando delle formazioni partigiane piemontesi, ci sarebbe stato un tiramolla inconcludente: Operti riceverà, a parole, un comando mai esercitato e in cambio darà un po’ di quattrini. Del presunto tesoro si perderanno le tracce.
Le scene alle quali ha assistito hanno trafitto il cuore di Renzo. Per lui il messaggio letto l’8 settembre alla radio da Badoglio ha sancito una resa senza condizioni. In pochissimi giorni ha rinnegato l’antica fede monarchica. Il re e Badoglio non gli sono più sembrati la garanzia del giusto e del meglio. Al contrario, soltanto il rifiuto dei loro ordini avrebbe potuto ripristinare l’onore, che secondo il giovane Morera è stato calpestato. Non si trattava più di vincere una guerra, bensì di perderla senza perdere anche il rispetto del nemico. Per Renzo, che aveva aspirato a essere un cadetto dell’Accademia navale, la consegna della flotta a Malta ha costituito il massimo della vergogna; di più: un’onta incancellabile.
Al tumulto dell’anima si è aggiunta l’ansia per le sorti del genitore. Il colonnello era da qualche mese a Vienna quale responsabile di tutti i trasporti militari italiani verso l’Est. I tedeschi che sorte gli avranno riservata? La mamma ha condotto Renzo e Adalberto in chiesa per una preghiera a beneficio del padre. A casa Morera nessuno è riuscito a chiudere occhio e non per la festa che ha attraversato le vie del paese, di nuovo nella falsa illusione della pace. Allo scetticismo del nonno si è contrapposto l’esagerato ottimismo dei tanti ex fascisti e dei pochi antifascisti pronti a giurare sulla genialità del re e di Badoglio. Non per niente sono piemontesi come noi.
Alle controverse notizie sulla liberazione di Mussolini ha seguito il discorso del duce da radio Monaco, il 18 settembre. Una voce stanca, provata: quasi che provenisse dall’oltretomba. «Una voce che aggiungeva altra tristezza a quella già presente nei nostri cuori», annoterà settant’anni dopo Renzo. Tuttavia, per lui e per quanti la pensavano come lui, anche se mancava il timbro possente di un tempo, contavano le parole, l’invito a risollevarsi, la promessa di avere una Patria da seguire. E’ stato un susseguirsi di voci e di speranze: a La Spezia la X Mas di Borghese ha alzato il tricolore con uno squarcio lì dove troneggiava il simbolo dei Savoia; a Roma il maresciallo Graziani ha radunato gli ufficiali del nuovo esercito; voci crescenti hanno assicurato che centinaia, migliaia di giovani volontari stipassero i centri di raccolta di Alessandria e Vercelli. Renzo ha coltivato un solo sogno: entrare nella X.
Pure in una realtà concentrata e zeppa di legami intrecciati, come quella di Bricherasio, sono emerse le fratture, le incomprensioni, le ostilità serpeggianti nel resto della Nazione. Da una parte chi ha sposato la nuova Italia per fedeltà al Re, per disgusto della dittatura, per la voglia di chiuderla con il fascismo delle leggi razziali e della guerra di sventure, lutti, rovine; dall’altra parte chi si è aggrappato alla nascente Repubblica Sociale nella convinzione che sia l’unico modo di salvaguardare l’onore, di preservare l’idea stessa della Patria, di meritare il rispetto del nemico. E se questo significhi restare al fianco del tedesco, che mai ci ha fatto mancare il disprezzo e il fastidio, sarà la volta buona per fargli cambiare idea. In mezzo ai due schieramenti, numericamente minoritari, la gran massa di attendisti, di equilibristi, di sapienti dispensatori di un colpo a Vittorio Emanuele e di un altro a Mussolini. A dispetto delle raccomandazioni della mamma e dei nonni, Renzo si è schierato, ma con il desiderio di sottrarsi al clima irrespirabile della guerriglia e con l’ambizione di combattere in un fronte popolati di amici e di nemici riconoscibili dalla divisa. Papà sarebbe stato d’accordo? E soprattutto dov’era, che fine aveva fatto?
Per averne notizie Renzo e la madre si sono spinti fino a Cuneo: hanno parlato con un funzionario del Pnf reduce da un campo d’internamento. Né egli né altri internati incontrati in quell’aspro autunno hanno saputo dire alcunché del colonnello Morera. In novembre è, però, arrivata una sua lettera. Era vivo ed era stato liberato dal campo di concentramento polacco, dove i tedeschi l’avevano ristretto. Aveva aderito alla Rsi, si trovava a Musingen con gli altri commilitoni in attesa d’impiego. Commozione ed esultanza di mamma, dei nonni, di Adalberto. Renzo ha avuto un motivo in più per gioire: per quanto separati da migliaia di chilometri, lui e il padre avevano compiuto l’identica scelta. Gli ha scritto per annunciare che si sarebbe arruolato sotto la bandiera del comandante Borghese. La risposta è stata raggelante: non muoversi da casa, finché non avessero parlato uno di fronte all’altro.
E’ divampata la guerra fratricida. A Bricherasio e nelle valli vicine l’ha aperta l’assassinio della maestra di Adalberto, che non aveva nascosto la propria appartenenza fascista. L’hanno uccisa tra le mura domestiche patrioti venuti da fuori. Sono spuntati un po’ ovunque sulle montagne intorno alle città, quasi sempre ex militari, che l’8 settembre non hanno buttato il fucile. Le notti sono state scandite da assalti, agguati, caduti. Ogni volta è scattata la feroce rappresaglia germanica, hanno preso a parteciparvi pure gli uomini in camicia nera. Il baratro di sangue si è approfondito giorno dopo giorno. La fucilazione di Ciano e degli altri gerarchi fascisti condannati nello sbrigativo processo di Verona ha annunciato che le vendette personali s’intersecavano con le contrapposizioni ideologiche. Presto i regolamenti di conti sarebbero avvenuti pure tra le formazioni dei ribelli. La propaganda ha dilagato da ambo i lati; le trasmissioni di radio Londra incitanti i patrioti italiani a uccidere i traditori fascisti hanno aumentato lo sconforto di Renzo, che non si sentiva traditore né, tanto meno, servo dei tedeschi.
Un mattino di febbraio ’44 dalla vettura militare con autista è sceso il colonnello Morera: sulla divisa i nastrini di tutte le sue decorazioni, compresa l’aquila germanica conferitagli in Grecia. All’immensa gioia di moglie, figli, genitori si è mescolato il terrore di trasformarsi nel prossimo bersaglio di un’esecuzione avversaria. Il colonnello ha così scoperto la realtà a lui sconosciuta della guerra civile: italiani contro italiani nel segno di una ferocia crescente. Morera ne era all’oscuro: pur essendo l’addetto militare dell’ambasciata repubblichina a Berlino e il capo della missione militare, nessuno gli ha raccontato quanto avveniva nella Penisola, nel territorio teoricamente sotto il controllo di Mussolini e dei suoi sopracciò germanici. Esauriti gli abbracci, i baci, il sollievo dello «stiamo tutti bene», proprio il nuovo ruolo gli ha consentito di annunciare ai familiari che la guerra era persa. Come persa? Ma se ogni giorno radio e giornali non facevano altro che rassicurare sull’immancabile vittoria, sulle inesorabili armi segrete della Wermacht in grado di propiziarla?
Morera ha confermato che sì i tedeschi avevano allo studio nuovi strumenti di morte collettiva, sarebbero però bastati? Nella domanda era già insita la risposta. Forse l’unica speranza s’appuntava sulle incomprensioni tra gli angloamericani e l’Urss, tuttavia non c’era da illudersi che potessero condurre a un repentino rovesciamento delle alleanze. In tale ottica era stata comprensibile la richiesta di armistizio da parte dell’Italia. Purtroppo, anziché concluderlo secondo regole e decoro, il re e Badoglio avevano preferito il sotterfugio e l’inganno. Di conseguenza per Morera e per tanti altri il riscatto e la salvaguardia dell’onore nazionale erano sfociati nell’adesione alla Repubblica Sociale di Salò. La quale, nel giudizio dei suoi sostenitori, era da subito assurta a unico scudo sia degli oltre 800 mila militari italiani finiti nelle poco solidali mani tedesche, sia della popolazione sottoposta alla rancorosa occupazione del Terzo Reich. E il colonnello ha dato per scontato che dalla protezione si potesse passare allo scontro vero e proprio tra fascisti e nazisti.
Renzo è stato confortato dalle analisi del padre, soprattutto dalla sua sicurezza che soltanto uno Stato presieduto da Mussolini, l’unico in grado di farsi ascoltare da Hitler, avrebbe potuto arginare l’estremismo fascista e l’invadenza nazista. Per riuscirci, però, avrebbe necessitato di un forte esercito nazionale in grigioverde, non in camicia nera. E in questo esercito ci sarebbe stato posto per Renzo. Il colonnello ha apprezzato il desiderio di arruolarsi del figlio, ma con una piccola variante: lo voleva al suo fianco a Berlino per sfruttarne la buona conoscenza della lingua tedesca, l’attitudine a viaggiare, l’addestramento agonistico-militare conseguito nello squadrone a cavallo e nella gioventù littoria. Renzo sarebbe diventato il suo porta ordini di fiducia per ripristinare i collegamenti con le unità italiane impegnate in Centro e Nord Europa. Mentre la madre impallidiva, Renzo è stato intimorito dal compito che l’avrebbe atteso da fine maggio: papà ha, infatti, chiarito che avrebbe dovuto concludere la seconda liceo prima di potersi avventurare verso la Germania.
Prima di andarsene il colonnello ha consegnato al figlio una busta, dentro un bigliettino di saluti a firma Enzo Grossi, il capitano di vascello comandante del sottomarino Barbarigo divenuto leggendario per gli affondamenti in Atlantico del naviglio nemico. A Grossi hanno fruttato la medaglia d’oro e una fama enorme. Finita la guerra, però, commissioni d’inchiesta modificheranno le imprese attribuite a Grossi con revoca di decorazioni e promozioni.
Ripartito il colonnello, esaurita quella breve fase di esaltazione familiare, la realtà è tornata a opprimere. In compagnia del nonno Renzo ha ripreso il giro delle case dei contadini nella speranza di poter acquistare carne e burro al mercato nero. A differenza del nonno, pronto a sfidare il diavolo per alimentare i nipoti, Renzo se n’è vergognato. Ma non è stato il peggio. Sono aumentate le esecuzioni da un lato, le rappresaglie dall’altro. A confondere i piani, ad aumentare lo sconforto, la sensazione di precipitare in un burrone senza fine, ha provveduto la fucilazione a Torino del generale Perotti, un antico conoscente di Morera. Responsabile del Comitato regionale militare piemontese, Perotti è stato catturato il 31 marzo ’44 assieme ai componenti del direttivo nella sacrestia del Duomo di Torino. Nelle stesse ore i gappisti comunisti hanno ucciso il direttore della Gazzetta del Popolo, Ather Capelli. Questa esecuzione ha indotto il Tribunale speciale per la sicurezza dello Stato alla massima severità nei confronti degli arrestati. Il 5 aprile Perotti è stato giustiziato da un plotone della Guardia nazionale repubblicana assieme a Franco Balbis, Quinto Bevilacqua, Giulio Biglieri, Paolo Braccini, Enrico Giachino, Eusebio Giambone, Massimo Montano.
I mesi sono trascorsi in un’atmosfera sempre più incarognita. Finalmente la scuola si è conclusa. In vista della partenza per la Germania, i Morera sono rientrati nella dimora mezzo disastrata di Torino. La nonna è andata dalla merciaia amica per acquistare maglie di lana e un pellicciotto da donare a Renzo in predicato di affrontare il freddo del Nord. L’ultima sera durante la cena è stato deciso di offrire al santuario della Madonna della Consolata, la protettrice di Torino e dei torinesi, l’oggetto d’argento più bello e costoso della famiglia. Così l’indomani è stato prelevato in banca l’imponente vaso d’argento, in seguito appeso sopra l’altare maggiore.

L’impatto con Berlino disorienta Renzo. Malgrado le rovine e le distruzioni, che segnano il suo primo percorso verso l’hotel Esplanade, sede del comando della missione, persino Torino sparisce al suo confronto. Nella Potsdamerplatz devastata dalle macerie l’Esplanade svetta. Il maestoso edificio ospita comandi e uffici di numerosi organismi civili e militari, tedeschi e stranieri. S’incontrano soldati, ufficiali, generali di tantissimi eserciti. A Renzo capita d’incrociare nei corridoi il belga Leon Degrelle, fondatore di un movimento nazionalista d’intonazione cattolica, che ha poi svoltato verso il nazifascismo; il gigantesco Sturmbannführer (equivalente a maggiore) austriaco delle SS, Otto Skorzeny, la cui celebrità si legava alla liberazione di Mussolini dalla residenza obbligata di Campo Imperatore. Skorzeny si era auto inserito nell’operazione, aveva fatto in modo di figurare in ogni foto con il duce smagrito e imbronciato, aveva rischiato di far precipitare la minuscola cicogna sulla quale era montato a ogni costo assieme al pilota e a Mussolini. Renzo incontra pure il gran muftì di Gerusalemme, Muhammad Amin al-Husayni: nel nome della comune lotta contro la Gran Bretagna, che occupa la Palestina, e dell’avversione per gli ebrei si è unito alle Nazioni dell’Asse. Il gran muftì, che dopo la guerra collaborerà con altri Paesi africani e asiatici a ospitare i criminali di guerra nazisti, non muove un passo senza le vigorose guardie del corpo. Viceversa procede spavaldo e da solo l’ex generale pluridecorato dell’Armata Rossa, Andrej Vlasov: dopo la cattura, nel vano tentativo di rompere l’assedio tedesco di Leningrado, è passato con Hitler e ha costituito l’esercito russo di liberazione. A differenza di Degrelle, che si salverà in Spagna, e di Skorzeny, che scamperà il processo di Norimberga, Vlasov sarà estradato dagli Alleati a Stalin e impiccato nel ’46.
La consegna della divisa grigioverde (sahariana in panno, pantaloni chiusi alla caviglia, maglione di lana a collo alto, scarponi neri, basco con aquila dorata di stoffa ad ali spiegate, due mostrine rosse rettangolari a punta con due leoni di san Marco e due gladi romani) produce un tuffo al cuore di Renzo. Si avvera un sogno. E anche se non è la divisa blu con corona regia sul berretto e stellette sul bavero, non è cambiato l’ideale di Renzo: combattere per l’onore della marina da guerra italiana. Dopo oltre settant’anni è convinto che fosse una conseguenza della sua educazione: dovere, onore e patria. E ci tiene a ricordare che sono gli stessi dettami di West Point. Per lui diciassettenne il riferimento era paradossalmente il senso d’onore dispiegato nei secoli dalla marina britannica. Nel giudizio di Renzo, i discendenti di Nelson mai avrebbero consegnato la flotta al nemico. E il nonno di rincalzo lodava il comportamento dei soldati sovietici a Leningrado, a Stalingrado e ne spiegava l’importanza: « Non penso proprio che siano tutti comunisti. Né credo che la popolazione, che si fa massacrare per supportarli, sia tutta entusiasta di Stalin. Ma, ciò nonostante, soldati e popolo si stanno battendo da eroi. Per la loro Nazione, per la Santa Russia. Non per il comunismo. Sarà la prima, non il secondo a beneficiare del sacrificio del soldato sovietico. Guai se gl’italiani, per abbattere il fascismo, combattessero male. Guai se il soldato italiano scadesse a un livello inferiore a quello del soldato russo, tedesco, inglese, giapponese, greco o americano. Per il futuro rango dell’Italia nel mondo, a guerra terminata, sarebbe la fine».

Si dorme in minuscole stanze a due letti, i pasti vengono consumati in una grande stanza bene illuminata, il cibo non è abbondante, la fetta di carne è quasi trasparente, ma accettabile. La missione repubblichina è una piccola comunità assai affiatata: poco più di venti militari con le vecchie uniformi del regio esercito private, però, delle corone reali e con i gladi al posto delle stellette. Il colonnello Morera è soprattutto il comandante, poco spazio per ricordare che è pure il papà. L’ufficiale in seconda è il tenente colonnello dei granatieri di Sardegna Vivaldo Viappiani. E’ lui che manda Renzo al poligono per impratichirsi delle armi e a passeggio con una dettagliata pianta di Berlino per imparare strade, piazze, percorsi, scorciatoie. Renzo offre di Viappiani un ritratto molto umano, affettuoso. Le foto dell’imponente tenente colonnello segnalano la dolcezza dello sguardo, l’aria mite da buon padre di famiglia. Eppure il 10 settembre ’43 è stato fra gl’intrepidi difensori di porta San Paolo a Roma contro il tedesco, l’anima della resistenza dei suoi soldati. I dodicimila granatieri, i Lancieri di Montebello, il V battaglione genio guastatori, un battaglione di carabinieri e diversi civili hanno tentato l’estrema difesa di Roma. Battuti, hanno poi seguito strade diverse: chi ha cercato di sopravvivere, chi è andato con le bande patriottiche, chi, come Viappiani ha aderito alla Rsi insieme con il comandante della divisione, il generale Gioacchino Solinas, un gran fascista, che però aveva obbedito all’ordine di non far passare i reparti di Kesserling.
Tra il 4 e il 6 giugno il morale traballa. La 5a armata statunitense entra a Roma accolta dall’entusiasmo senza fine degli abitanti. L’atteggiamento sconcerta gl’italiani di Berlino: si chiedono quanti di quelle persone in delirio avessero osannato allo stesso modo la dichiarazione di guerra del 10 giugno ’40 di Mussolini e altre sue apparizioni dal balcone di palazzo Venezia. Renzo ammette che solo nel dopoguerra avrebbe compreso e condiviso l’atteggiamento dei romani: negli americani avevano visto «non tanto i vincitori quanto chi li aveva liberati dalla guerra, dalla fame, dai rigori dell’occupazione tedesca». Due giorni più tardi, il 6 giugno, le divisioni alleate sbarcano in Normandia, superano le difese sulla costa, avanzano in territorio francese. Nel giudizio degli ufficiali della missione militare la Germania è spacciata: non può reggere l’urto su due fronti senza il contributo delle armi segrete, di cui si parla in continuazione, ma delle quali non c’è traccia. In tale guazzabuglio di sentimenti passa in secondo piano l’ultima operazione dell’aviazione repubblichina, fin lì formata da caccia e aerosiluranti per l’esplicito divieto posto da Mussolini alle squadriglie di bombardieri: temeva che il tedesco ne ordinasse l’impiego contro le città italiane del Regno del Sud. Il 5 giugno dieci aerosiluranti hanno attaccato Gibilterra guidati dal giovanissimo capitano Irnerio Bertuzzi, che poi diventerà il pilota personale di Enrico Mattei e morirà con lui nell’attentato di Bascapè (1962). Sono state colpite quattro navi alla fonda. Otto equipaggi sono riusciti a raggiungere la base d’Istres, alle Bocche del Rodano, due sono atterrati in Spagna. Per esaurimento del carburante, secondo la nota di Salò, che funge da capitale della repubblica mussoliniana; per tirarsi via dalla guerra persa, secondo altre ricostruzioni.
Uscendo dall’Esplanade non bisogna dimenticare il tesserino bilingue di riconoscimento (Ausweiss). La città appare popolata soprattutto da donne: stanno in fila davanti ai negozi, liberano i marciapiedi dai detriti, distribuiscono la posta, guidano i mezzi pubblici, fanno le ausiliare dell’esercito. Gli uomini sono una minoranza, quasi tutti in divisa, vecchissimi o giovanissimi più i mutilati. Malgrado le ferite inferte dai bombardamenti, la quotidianità di Berlino prosegue senza rilevanti cambiamenti. Le linee telefoniche, quelle elettriche, le condutture dell’acqua sono riparate in tempi brevi. La metropolitana, spesso usata come rifugio, nonostante il rischio di fare la fine dei topi, mai rimane chiusa più di tre giorni.
Abbondano i lavoratori stranieri. Fra essi diversi internati militari italiani (Imi). Renzo scorge due alpini macilenti, barbe non rasate, alle prese con una montagna di macerie da spalare e da sgomberare sotto lo sguardo truce di anziani guardiani germanici. Hanno la vecchia divisa, con le stellette regie sul bavero, a brandelli. Domandano notizie dell’Italia e soprattutto pane. Che differenza con i prigionieri delle altre Nazioni, soprattutto francesi, che Renzo incontra nel primo incarico fuori Berlino. E’ diretto al comando della Kriegsmarine a Juteborg. Una sequenza di paesi lindi e ordinatissimi, di foreste e di campi agricoli, nei quali lavorano, per l’appunto, i soldati transalpini ben vestiti e senza controllori, cittadini di quel regime di Vichy coccolato dal Terzo Reich per la produzione industriale. Renzo comprende appieno l’insistenza del padre: dal primo giorno ha martellato che il soccorso e la protezione dei connazionali internati devono costituire l’esigenza primaria della loro presenza sul suolo tedesco. L’unico modo di dare una ragione pratica all’esistenza della Repubblica sociale.








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